Inizia l era della reindustrializzazione! Le ragioni di un trend. Il metodo Vertus - industria italiana

2022-12-02 18:02:53 By : Ms. Bella Zhang

Inizia l’era della “reindustrializzazione”. Ovvero la riconversione verso produzioni nuove e promettenti di siti industriali in dismissione, che però contengono al loro interno valore, in termini di asset e competenze.

Una ricchezza che anziché diventare archeologia industriale, può essere preservata e riutilizzata, come già avvenuto per alcuni stabilimenti italiani di aziende come Medtronic, nel medicale; Treofan, nella produzione di polimeri e Schneider, colosso dell’automazione e dell’elettronica. La strategia è quella che applica Vertus, un gruppo di società di consulenza che offre servizi principalmente in tre ambiti: la re-industrializzazione, la gestione e la valorizzazione delle risorse umane (attraverso la controllata Gedi, azienda di Torino attiva da oltre 30 anni nell’ambito della consulenza operativa, HR, Temporary management e reskilling); e la finanza agevolata. Servizi che spesso sono integrati quando vengono applicati alla riconversione dei siti: e in questo approccio multidisciplinare sta il valore aggiunto di Vertus.

«Ci sono interi settori in profonda trasformazione, per ragioni diverse che vanno dal cambiamento della domanda, alle difficoltà oggettive generate dall’aumento dei costi e della bolletta energetica, fino alla deglobalizzazione – dice a Industria Italiana il ceo Alessandro Ielo – Inevitabilmente ci saranno aziende che dismetteranno stabilimenti che fanno produzioni obsolete ma che contengono in sé know how e processi che possono essere valorizzati e riconvertiti. Re-industrializzati, in una parola. Crediamo che questa sia la via maestra per far crescere il valore dell’industria italiana, ma anche dell’economia».

Perché la re-industrializzazione potrà essere un pilastro della manifattura italiana? Le ragioni sono diverse. E vanno dalla trasformazione della domanda (trainata dall’evoluzione tecnologica ed ecologica in atto); all’aumento dei casi di default aziendale che si prevede con la fine delle moratorie dell’era Covid; fino alla deglobalizzazione che potrà far riportare produzioni strategiche in patria e alle norme anti-delocalizzazione. Vediamo in che modo questi elementi spingeranno sull’acceleratore della re-industrializzazione. Interi settori industriali sono in progressiva e profonda trasformazione.

È il caso dell’automotive, che va inesorabilmente verso l’alimentazione elettrica. Questo cambiamento di paradigma incide sui fornitori: l’Italia esprime un vero e proprio esercito di aziende di componentistica Tier 2 e 3 (un settore che vale nel 2020 un fatturato di 44,8 miliardi di euro e impiega oltre 161.400 addetti, secondo Anfia). Per servire l’industria dell’auto elettrica dovranno necessariamente cambiare: prendiamo per esempio un produttore di freni a disco, che sono la norma per le auto alimentate da fonti fossili. Questi produttori dovranno riconvertirsi alla produzione di freni rigenerativi (che producono energia da immettere nel motore durante l’uso) che spesso sono anche a tamburo. Competenze e linee avrebbero bisogno solo di essere riadattate. Lo stesso vale per candele, rotori, sospensioni, senza considerare che le auto ad alimentazione elettrica richiedono maggior uso di acciaio e di terre rare per le batterie.

Una dinamica simile coinvolge le aziende del settore elettrotecnico ed elettronico, 1.400 in Italia e aderenti all’Anie, l’Associazione di categoria di Confindustria. Il settore occupa 500mila addetti con un fatturato aggregato (a fine 2021) di 76 miliardi di euro. Dai settori Anie proviene il 30% della spesa privata in Ricerca e Innovazione investita ogni anno nel nostro Paese. In generale, le produzioni a minor valore aggiunte sono state già trasferite nei paesi dove il costo del lavoro è inferiore (e tra i siti chiusi ci sarebbe potuto essere qualche gioiello da recuperare). La richiesta di automazione sta spostando sempre più l’elettronica a fondersi con il digitale: ma certamente siti specializzati nelle produzioni elettroniche – anche se attualmente impegnati in produzioni ormai anacronistiche e quindi nel radar delle casa madri per eventuali dismissioni, sono interessanti per le produzioni attuali, con l’introduzione di tecnologie attuali, dall’intelligenza artificiale alla blockchain.

Un secondo trend che potrà trainare i processi di reindustrializzazione di alcuni stabilimenti è l’atteso aumento delle società in crisi con la fine delle moratorie e dei sussidi di emergenza elargiti nel lungo biennio del Covid. Secondo l’Osservatorio Rischio Imprese di Cerved, sono quasi 100mila le società italiane a rischio default. In particolare nei settori di costruzioni, trasporti, industria pesante, servizi non finanziari. Nel 2022 secondo l’Osservatorio ci sono alcuni settori che hanno registrato un peggioramento del rischio consistente: si tratta della gestione aeroporti (+24,7%), della siderurgia (+12,1%) e della ristorazione (+11,7%). In sofferenza anche cantieristica (+4,3%) e automotive (+3,7%). Di queste centomila aziende a forte rischio alcune sono destinate a fallire senza dubbio: ma una parte di esse, indebolite da lockdown, stress da rottura delle supply chain e pressione sui margini, avrebbero il potenziale, superato il momento contingente, di sopravvivere e tornare a produrre in maniera redditizia. È chiaro che i fallimenti o in generale le procedure concorsuali, comportino cessione di stabilimenti: gli asset di valore delle aziende insolventi costrette a portare i libri in tribunale vengono ceduti dai commissari per recuperare liquidità utile a risarcire i creditori. Insomma, alle porte c’è un potenziale valanga di siti da re-industrializzare.

Nel corso del biennio pandemico con il blocco dei porti e la rottura delle supply chain si è tornato a parlare di reshoring, cioè della possibilità che le imprese europee riportino in patria produzioni strategiche e non si servano più dalla Cina. E proprio i cambiamenti accelerati da quegli eventi traumatici rendono oggi questa ipotesi economicamente sostenibile. «Da un lato il costo del lavoro cresce nei paesi tradizionalmente low cost, e quindi viene meno la ragione principale della delocalizzazione – dice Ielo – Dall’altro il risk management delle aziende non può ignorare che avere fornitori o produzioni strategiche troppo distanti è ora un pericolo non solo per il time to market, ma per garantire la stessa continuità del business. Bilanciando costi e rischi, potrebbe diventare più conveniente sostenere un maggior costo del lavoro in Italia che tenere le produzioni dei componenti in estremo Oriente». E in prospettiva l’incidenza del costo del lavoro nel mondo occidentale è destinato a diminuire, grazie all’automazione. Abbatte il costo del personale sulle linee – perché semplicemente sostituisce alcune figure professionali a basso valore aggiunto – l’automazione rende sostenibile il reshoring. E questo si collega alla re-industrializzazione: gli stabilimenti che vengono ceduti, possono essere automatizzati e quindi resi competitivi, e convertiti al reshoring. «A fronte delle grandi aziende che tenderanno a cedere fabbriche in Italia, ci saranno pmi del made in Italy che le acquisteranno per re-industrializzarle: queste pmi saranno protagoniste di questa rivoluzione del re-shoring».

E infine c’è un tema di normativa che traina il trend della re-industrializzazione. «Già la Legge di Bilancio 2022, 234/2021, ha inasprito le norme anti-delocalizzazione – dice Ielo – sostanzialmente aumentando i costi che le aziende devono sostenere per chiudere uno stabilimento, in assenza di un accordo con il sindacato». Sostanzialmente ogni azienda con almeno 250 dipendenti nell’anno precedente a quello in cui decide di chiudere una sede con cessazione delle attività e licenziamento di almeno 50 lavoratori deve comunicarlo almeno 90 giorni prima a Regioni, Sindacato, Mise e Anpal (in base ai commi 224-236 della già citata Legge di bilancio). Entro sessanta giorni dalla comunicazione il datore di lavoro deve elaborare un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura (progetti di politica attiva, replacement, reskilling e upskilling). Se si raggiunge l’accordo si procede alla sua realizzazione, mentre in caso di mancato accordo il datore di lavoro è soggetto alla sanzione del ticket licenziamento aumentato del 50.

La medesima sanzione è prevista in mancanza di presentazione del piano o di un piano incompleto o anche se il datore di lavoro sia inadempiente rispetto agli impegni assunti, ai tempi e alle modalità di attuazione del piano. Nel recente decreto cd. Aiuti-Ter (l’ultimo del Governo Draghi) queste norme sono state ulteriormente inasprite (si parla di sanzioni moltiplicate per 5! In caso di non accordo col Sindacato)… ma si dovrà attendere la ratifica in sede parlamentare. È chiaro che questa norma giochi a favore dei processi di re-industrializzazione: perché rende molto più efficace ed economicamente conveniente per l’azienda cedente avviare un processo virtuoso di vendita e riconversione che contempli il mantenimento dei livelli occupazionali.

Esiste un luogo dove si possono cercare storie di possibili ristrutturazioni industriali. È l’Osservatorio del Mise sulle vertenze sindacali: «le vertenze sono pubbliche per legge quando la chiusura riguarda almeno 150 lavoratori – dice Ielo – nel qual caso si viene convocati al Mise e bisogna fare un accordo sindacale in sede nazionale. Questo limite di legge non è nella pratica vincolante perché accade spesso che anche crisi con meno lavoratori vengano portate all’attenzione nazionale. È accaduto per esempio con la piccola crisi dell’Ilva di Frosinone, che riguardava 70 lavoratori ed è stata trattata al Mise per la sua rilevanza nazionale». I tavoli aperti attualmente sono molteplici: l’elenco completo è visionabile sul sito del Mise. Secondo gli ultimi dati disponibili (ad agosto 2022) sono 73 i tavoli di crisi aperti al Mise, con 46 tavoli “attivi”, ovvero nel pieno della trattativa tra istituzioni e azienda e 27 “di monitoraggio”, dove cioè è stata raggiunto l’accordo sindacale e si procede con il piano sociale. I tavoli attivi erano 55 a fine 2021 e quelli di monitoraggio erano 14. Tutti i tavoli ancora aperti coinvolgono 95mila lavoratori in tutta Italia.

Da questo bacino attinge Vertus per trovare le sue storie di re-industrializzazione. «Quando un’impresa ci contatta per dismettere per esempio uno stabilimento, noi analizziamo innanzitutto gli asset: le attrezzature e i processi industriali, le competenze delle persone; intercettiamo processi espansivi possibili nel mercato e proviamo a immaginare progetti industriali alternativi per non far morire lo stabilimento ma riconvertirlo, anche attraverso un passaggio di mano», dice Ielo. E il metodo è realmente scientifico. Perché si parte da una fase di analisi, che porta a inquadrare il patrimonio industriale disponibile, dal real estate, all’impiantistica, ai macchinari alle persone, con le competenze possedute e la loro capacità di fare upskilling e reskilling. «La prima valutazione è se è possibile attivare un progetto di economia circolare, se si possono ri-utilizzare gli scarti di processo o l’energia o se, più banalmente, una camera bianca può essere valorizzata con qualche altro processo », continua Ielo. Identificati i settori promettenti in cui ricollocare gli asset della fabbrica e i parametri economico-finanziari dell’impresa, si parte con la messa a regime del progetto. «Questo è il momento in cui contattiamo le possibili aziende acquirenti, fino a 500, per avere un match e raccogliere un primo interesse – continua il manager – all’interno di questa fase di scouting si chiede un impegno alla riservatezza, svelando nome del cedente e quale stabilimento viene ceduto. Evitiamo di fare turismo industriale: portiamo a vedere lo stabilimento dopo aver verificato il reale interesse».

Il secondo goal è ottenere una manifestazione di interesse: se il progetto piace e sembra solido, interviene la divisione di finanza agevolata del gruppo Vertus per favorire gli investimenti. E l’ultimo step è il closing. «Noi siamo consulenti di chi cede e dunque lui sceglie con chi vuole negoziare e andare a chiudere – dice Ielo – Uno dei parametri del successo dell’operazione chiusa è il numero di persone che restano in azienda». Nel processo di re-industrializzazione, un tema centrale è la salvaguardia occupazionale. «Nel settore in cui operiamo – precisa Ielo – ci sono tanti prenditori. Intendiamoci: guadagnare una dote industriale fa parte di qualsiasi attività di reindustrializzazione, ma è necessario affiancare una progettualità, che è quello che garantisce una continuità produttiva e il mantenimento dei livelli occupazionali. Il nostro ruolo è far sì che il proponente non scappi con la dote. Chiaramente si tratta sempre di progetti a rischio, in quanto progetti imprenditoriali, ma il nostro lavoro ha anche l’obiettivo di avvallare il piano industriale di subentro come serio e sostenibile».

Tra i casi di recupero a cui ha lavorato Vertus, spicca Medtronic, multinazionale Usa attiva nella produzione di materiale biomedicale. Al centro della vicenda, la controllata Invatec e suoi due stabilimenti di Roncadelle e Torbole Casaglia, nella provincia di Brescia, con 360 dipendenti e attività nella produzione di cateteri per chirurgia vascolare. «I due stabilimenti sono stati acquisiti dalla startup Roncadelle Operation proprietà di fondo olandese – racconta Ielo – che deteneva brevetto per siringhe con ago retrattile, alla cui produzione sono stati riconvertiti i due stabilimenti di cui sopra». Il caso si prospettava particolarmente complesso: i dispositivi medici prodotti da Medtronic nelle fabbriche bresciane sono assoggettato ai processi autorizzativi dell’Fda Usa, che durano diversi anni duranti i quali i produttori non possono commercializzare i prodotti e dunque non possono fare fatturato e margini. «Pertanto non avevamo un portafoglio clienti e un valore economico da offrire al compratore. C’erano le linee produttive, le tecnologie, le camere bianche e chiaramente il know how delle maestranze: aver trovato un altro player che si sia insediato per 50 milioni di investimenti lo consideriamo un grande successo».

Il secondo case history è quello di Treofan, azienda di Battipaglia in provincia di Salerno, ceduta inizialmente dalla casa madre tedesca alla multinazionale indiana Jindal. «Lo stabilimento era attivo nella produzione di film in polipropilene, ovvero la plastica rigida trasparente che viene usata per confezionare merendine o sigarette», dice Ielo. A gennaio 2019 Jindal aveva annunciato l’intenzione di chiudere questa azienda la cui storia affonda le radici nella Montedison e di licenziare tutti i dipendenti. «In quel momento siamo intervenuti e siamo riusciti a far acquisire la Treofan a un’azienda locale, la Jcoplastic la cui attività è centrata sulla produzione di casse e recipienti in plastica». Jcoplastic segnatamente produce cassonetti per la spazzatura, con una plastica che viene frantumata e riutilizzata in un processo di economia circolare. L’azienda, per essere fedele alla sua anima green, aveva in progetto di riconvertire i motori dei camion che utilizza per i trasporti da endotermici a elettrici. Pertanto si è impegnata a realizzare un piano di riconversione dello stabilimento perché potesse fornire i mezzi a trazione elettrica per la distribuzione. Tutti i 51 lavoratori dello stabilimento di Battipaglia sono stati riassunti dopo essere stati formati per la nuova attività.

L’ultimo caso è quello dello stabilimento rietino di Schneider, multinazionale francese con 29 miliardi di euro di fatturato e focus sulle soluzioni digitali per la gestione dell’energia e automazione per l’efficienza e la sostenibilità. A Rieti, il gruppo aveva uno stabilimento attivo nella produzione di interruttori a bassa tensione con 180 dipendenti. «La fabbrica – racconta Ielo – è stata venduta a Elexos, consorzio di aziende che operavano nella minuteria metallica e nelle lavorazioni per Ericsson nel mondo dell’elettronica. Elexos però cinque anni dopo ha avuto problemi interni di governance e il Mise ha riaperto la vertenza». A questo punto è intervenuta Vertus che ha trovato un nuovo operatore capace di rilevare nuovamente il plant. Si tratta di Seko, azienda tra le più importanti dell’area di Rieti e attiva nella produzione di pompe industriali, che si è impegnata a rioccupare tutti gli ex lavoratori Elexos e a re-indutrializzare il sito ex Schneider che le è stato ceduto a titolo gratuito.

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