ESAMI DI MATURITA'. SECONDA PROVA SCRITTA: PEDAGOGIA. Due tracce ... im-possibili - a cura di Federico La Sala

2022-12-02 17:37:13 By : Ms. Kaibo Kaibo

STORIA, MEMORIA ED EDUCAZIONE: "MEDITATE CHE QUESTO E’ STATO". CON GRAMSCI, PRIMO LEVI E KURT H. WOLFF: SULLA ZATTERA DELLA MEDUSA, SU UN OCEANO DIPINTO, CON L’AMORE COGNITIVO.

EDUCAZIONE, INSEGNAMENTO, E SOCIETA’: LA PATRIA, LA NOSTRA PATRIA E’ LA LINGUA, NON LA TERRA NON IL SANGUE. Dante e Saussure insegnano. Materiali sul tema

IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITA’, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. Materiali

GENITORI E FIGLI IN UNA SOCIETA’ DEMOCRATICA. FARESTE EDUCARE I VOSTRI FIGLI DAI "PADRI" E DALLE "MADRI" DELLA NOSTRA COSTITUZIONE O DAI "PAPI" E DALLE "MAMI" DELLO SPETTACOLO DELLA "POLITICA"?!!

E comincerò dagli antenati: è giusto, e in pieno accordo, con la circostanza presente, che si tributi ad essi l’onore del ricordo. Questo paese fu l’immutata dimora, nella vicenda di generazioni infinite, dello stesso popolo, il cui coraggio l’ha trasmesso a noi libero (Tucidide, Discorso di Pericle).

  FIABA E COSTITUZIONE. "APRITE, APRITE": IL GOLPISMO DEL LUPO, LA PAROLA "ITALIA" CONSEGNATA A UN PARTITO (1994-2009), E I SETTE CAPRETTI.

  LA LIBERTA’, LA "PAROLA" E LA "LINGUA" DELL’ITALIA, E IL COLPO DI STATO STRISCIANTE DEL PARTITO "FORZA ITALIA".

  EMERGENZA EDUCATIVA: "ADDIO AI PADRI", VIVA IL GOVERNO DEI "PAPI"!!!

  MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA.

  COSA SIGNIFICA ESSERE ITALIANI ED ITALIANE. LA LEZIONE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI - di Piero Calamandrei.

  COSTITUZIONE, SCUOLA E CASTA POLITICA. UN TRADIMENTO STRUTTURALE DELLA FIDUCIA. A "Regime leggero", avanti tutta... "Forza Italia"!!!   LA SCUOLA PUBBLICA COME ORGANO COSTITUZIONALE DELLA DEMOCRAZIA.   Una nuova edizione del libro di Piero Calamandrei, "Per la scuola".

  CONTRO L’ITALIA, CONTRO LA FIRENZE DI DANTE E CONTRO L’ITALIA DI NAPOLITANO, L’ATTACCO DEI "PAPI", ATEI E DEVOTI.

  LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso dell’incoscienza" di Marshall McLuhan

GELMINI, TREMONTI, BERLUSCONI: IL COLPO FINALE ALLA SCUOLA PUBBLICA. L’OPERAZIONE SI FA IN TRE MODI. Il monito e la previsione di Piero Calamandrei

-UNA GRANDE OCCASIONE PER RIPENSARE L’EUROPA! Atene inaugura il nuovo museo dell’Acropoli.

  CITTADINANZA: EVANGELO E COSTITUZIONE...   E IL CIELO SI APRI’. LA NUOVA CITTA’ E IL DIRITTO DEL SOLE ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI"). Intorno a una nota di Michele Ainis

  COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?   DONNE, UOMINI, E FEMMINICIDIO. UNA PEDAGOGIA CIECA E ZOPPA E UN’EDUCAZIONE VIOLENTA E SQUILIBRATA DELL’INTERO GENERE UMANO. ""I soggetti sono due, e tutto è da ripensare" (Laura Lilli, 1993).

  DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".   Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi

  MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA.

  Questione antropologica - Life out of Balance!!!   GENERE UMANO: DONNE E UOMINI. 50 e 50. "I soggetti sono due, e tutto è da ripensare" (Laura Lilli, 1993). Le donne sono l’altra parte del genere umano necessaria affinché l’umanità possa essere intera, nell’identità e nella differenza.   EQUILIBRARE IL CAMPO. DEMOCRAZIA PARITARIA, A TUTTI I LIVELLI !!!

  LA LIBERTA’, LA "PAROLA" E LA "LINGUA" DELL’ITALIA, E IL COLPO DI STATO STRISCIANTE DEL PARTITO "FORZA ITALIA".

  UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.

  ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)? Non è il caso di ripensare i fondamenti?!

  CITTADINANZA: EVANGELO E COSTITUZIONE...   E IL CIELO SI APRI’. LA NUOVA CITTA’ E IL DIRITTO DEL SOLE ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI"). Intorno a una nota di Michele Ainis

MESSAGGIO EVANGELICO E COSTITUZIONE. L’ Amore (Charitas) non è lo zimbello del tempo e di Mammona (Caritas)!!!:

OBIEZIONE DI COSCIENZA !!! L’OBBEDIENZA NON E’ PIU’ UNA VIRTU’. LETTERA AI CAPPELLANI MILITARI. LA LEZIONE DI DON LORENZO MILANI

DON MILANI E GRAMSCI: UN APPELLO CONTRO LA TRASFORMAZIONE "MOLECOLARE" DELLA REPUBBLICA.

Don Lorenzo Milani, la Scuola di Barbiana, e la "Lettera a una professoressa". Un "ricordo" di Francesco Erbani

Papa Francesco: «Pregate perché io prenda esempio da don Milani»

Nelle parole del Papa l’abbraccio della Chiesa che don Lorenzo Milani ha desiderato fino alla morte, il riconoscimento del suo essere sacerdote, non solo maestro non solo pacifista. Un fatto storico, ecco perché

«Pregate per me perché anche io sappia prendere esempio da questo bravo prete». Quel bravo prete è don Lorenzo Milani e più chiaro e diretto di così Papa Francesco non avrebbe potuto essere. Non c’era questa frase nel discorso preparato, non c’era la frase finale rivolta ai sacerdoti: "Prendete la fiaccola e portatela avanti». Le ha aggiunte a braccio.

Don Milani aveva ragione, quando nel suo tono sempre un po’ provocatorio diceva: «Mi capiranno tra 50 anni». Forse faceva un numero, per dirla con parole sue, «per dar forza al discorso». Ma la contingenza della storia ha voluto che fosse una cifra esatta, che servissero davvero 50 anni - don Milani è morto il 26 giugno del 1967 - perché un papa venisse quassù, a Barbiana - una Barbiana restaurata con la vasca azzurra come allora non era-, al margine del margine del mondo, nella parrocchia che doveva chiudere e che fu tenuta aperta per isolare un sacerdote che allora si diceva "scomodo" e che oggi papa Francesco dice «ha lasciato una traccia luminosa».

Per molto tempo, don Lorenzo Milani è stato raccontato come l’educatore, il maestro, l’obiettore di coscienza - non senza distorsioni e strumentalizzazioni da parti assortite -: quasi che fosse marginale nella sua presenza storica il suo essere prete. Lo si è raccontato lasciando nell’ombra il lato che a don Milani premeva di più, perché fondava il senso della sua esistenza cristiana: il riconoscimento del suo sacerdozio da parte della Chiesa.

Cinquant’anni dopo Papa Francesco sana, dichiarandolo esplicitamente, questa mancanza. Mette il punto più importante alla fine, Papa Francesco, quasi per lasciarne il significato scolpito - come a segnare un passaggio che chi studierà il rapporto tra don Lorenzo Milani e la Chiesa di qui in poi non potrà ignorare -: «Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: "Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato...". Dal Cardinale Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani - non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: "Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui... quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio... Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto"».

Non per caso nelle parole del Papa emerge più di tutto il don Milani sacerdote: le definizioni che dà di don Milani lungo tutto lo snodo del discorso non sono scelte a caso. «Sono venuto a Barbiana» esordisce papa Francesco «per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve». Agli allievi dice: «Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato». E ancora: «La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole».

Papa Francesco sottolinea l’attualità di don Milani: «Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso». Il papa parla esplicitamente di "umanizzazione", facendo riferimento a un concetto milaniano: la parola ai poveri non per farli diventare più ricchi, ma per farli diventare più uomini. Non per caso c’è più di Esperienze pastorali sotteso al discorso di don Milani a Barbiana di quanto non ci sia di Lettera a una professoressa. La cita, certo, quando parla agli educatori: ma al centro c’è il sacerdote non il maestro. «La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. (...) Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi».

Ai sacerdoti papa Francesco ricorda che «la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: "Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire". Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: "Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale". Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli". Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni».

E ancora: «La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità».

Quelle ultime parole: «prendete e portate la fiaccola» sono l’abbraccio che don Lorenzo Milani ha desiderato una vita. Chi stava ascoltando sulle seggiole bianche di Barbiana lo sapeva, per aver vissuto con lui il dolore dell’incomprensione, e non per caso ha applaudito proprio i passaggi in cui ha sentito il riconoscimento atteso dal Priore per mezzo secolo.

TEOLOGIE E PEDAGOGIE SENZA GRAZIA ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv., 4.8). Mentre si scrivono tante belle parole sull’amore, ci si rifiuta di vedere come la capacità di amare venga distrutta quando si è ancora bambini.

A DIFESA DELL’INFANZIA E CONTRO UNA PEDAGOGIA PREISTORICA, L’ACCUSA DI ALICE MILLER. LE AUTORITA’ SPIRITUALI DEL NOSTRO TEMPO SONO SORDE E CIECHE.

DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO"

L’infanzia violata: 168 milioni di minori costretti a lavorare, ogni 7 secondi una bambina si sposa

L’ultimo rapporto di Save the Children: il mondo ha dimenticato l’età dell’innocenza

di Francesca Paci (La Stampa, 01/06/2017)

Majerah ha diciassette anni e dal 2017 è coniugata con un uomo che ne ha ventisette. Quando il padre concordò il suo futuro lei frequentava l’ottavo grado della scuola dove era un’alunna modello e sognava di diventare un dottore capace di aiutare le donne del villaggio precluse dall’assistenza sanitaria. Adesso il marito, un negoziante della periferia di Kabul, vuole risposarsi liberandosi di lei perché l’accusa di non riuscire a diventare mamma e, picchiandola come ha già fatto più volte, le ha dato due mesi di tempo prima di ripudiarla. «Non ho mai chiesto ai miei genitori di comprarmi vestiti o portarmi al parco, tutto quello che volevo era studiare e diventare un giorno dottore» racconta la ragazzina che non c’è più.

Majerah è una delle migliaia di bambine che ogni giorno, a getto continuo, vengono dare in sposa a pretendenti dell’età dei padri o talvolta dei nonni: una ogni 7 secondi, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children «Infanzia rubata» pubblicato proprio in queste ore.

Majerah e le altre sono un tassello del puzzle composto da «Infanzia rubata», che compone il quadro di un mondo a tinte foschissime: un bambino su 6 non ha accesso all’educazione (263 milioni non vanno a scuola), 168 milioni sono coinvolti nel lavoro minorile, oltre 16 mila minori di 5 anni muoiono ogni giorno per malattie facilmente curabili come polmonite o diarrea, 156 milioni hanno problemi di crescita legati alla malnutrizione. E poi ce ne sono 28 milioni in fuga da guerre e persecuzioni (la Siria ma non solo), 75 mila uccisi violentemente nel solo 2015 (più di 200 al giorno), un esercito di piccolissime spose che ogni 2 secondi mettono al mondo un neonato (15 milioni ogni anno).

Maglia nera dell’infanzia rubata Niger, poi Angola e Mali

Nell’indice globale dell’infanzia negata, il primo del genere, Save the Children stila la classifica dei peggiori paesi in cui essere bambini: al primo posto c’è il Niger seguito da Angola, Mali, Repubblica Centrafricana, Somalia. La maglia rosa va alla classifica c’è la Norvegia, società modello. L’Italia è in buona posizione, migliore della Germania e del Belgio ma peggiore di Olanda, Svezia, Portogallo, Irlanda e Islanda.

“Protezione ed educazione per tutti entro il 2030”

«È inaccettabile che nel 2017 milioni di bambini continuino ad essere privati della propria infanzia e del loro diritto di essere al sicuro» dice il Direttore Generale di Save the Children Valerio Neri. Qualcosa è stato fatto, ma non basta: «Nel 2015, i leader mondiali si sono impegnati a garantire a tutti i bambini, entro il 2030, il diritto alla salute, alla protezione e all’educazione, a prescindere da chi siano e dove vivano. Si tratta indubbiamente di un obiettivo molto ambizioso ma che deve essere raggiunto, i governi dovranno impegnarsi per assicurare a tutti i bambini l’infanzia che meritano».

Majerah ha raggiunto una consapevolezza pagata con la propria vita: «Mi ero sempre concentrata sugli studi indipendentemente dalle difficoltà quotidiane, le mie sorelle sono tutte più piccole di me, non ho mai avuto la possibilità di godermi l’infanzia sono stata forzata troppo presto a entrare nell’età adulta». Quindici milioni di ragazze l’anno si maritano come lei quando sono ancora sui banchi di scuola. I giochi - quando c’erano - s’interrompono senza appello, i doveri si moltiplicano nell’assenza totale dei diritti, l’orizzonte si frantuma sulle pareti di una casa-prigione. Le spose bambine sono il paradigma di una società che non si limita a perdere l’età dell’innocenza ma la violenta. Lo sappiamo, lo leggiamo, avviene drammaticamente in costante diretta alla luce del sole.

Sessione ordinaria 2014 - Seconda prova scritta

ESAME DI STATO DI ISTRUZIONE SECONDARIA SUPERIORE CORSO SPERIMENTALE

Progetto “BROCCA” Indirizzo:   SOCIO-PSICO-PEDAGOGICO

Il candidato è tenuto a svolgere, a sua scelta, due temi tra quelli proposti:

«L’educazione inclusiva è un processo che coinvolge la trasformazione delle scuole e degli altri ambienti di apprendimento, per provvedere a tutti i bambini, compresi i ragazzi e le ragazze, gli allievi appartenenti a minoranze etniche e linguistiche, coloro che provengono da popolazioni rurali, che sono affetti da HIV e AIDS, che presentano disabilità e difficoltà di apprendimento e offrire a tutti, giovani e adulti, opportunità di apprendimento. Il suo obiettivo è eliminare l’esclusione che è una conseguenza degli atteggia menti negativi e della mancanza di risposte nei confronti delle diversità causate dalla razza, dallo status economico, dalle classi sociali, dall’etnia, dalla lingua, dalla religione, dal genere, dall’orientamento sessuale e dalle capacità. L’educazione ha luogo in molti contesti, sia formali che non formali, all’interno delle famiglie e della più ampia comunità. Di conseguenza, l’educazione inclusiva non è una questione marginale ma centrale per il conseguimento di un’istruzione di qualità elevata per tutt i gli studenti e per lo sviluppo di società più inclusive. L’educazione inclusiva è essenziale per raggiungere l’equità sociale ed è un elemento costitutivo dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.»   Nicholas B URNETT - Prefazione al Documento dell’ UNESCO “Policy Guideline on I nclusion in Education” - Published by the United Nations Educational, Scientific and Cultural organization - UNESCO 2009 http://www.inclusive-education-in-action.org/iea/dokumente/upload/72074_177849e.pdf

Esponi le tue riflessi oni sul testo sopra riportato e :

   precisa che cosa s ’ intende per ambiente di apprendimento, evidenziando le concezioni socio- psico- pedagogiche che contribuiscono alla sua definizione;    illustra gli approcci metodologico- didattici che possono essere utili ne ll ’ innovazione degli ambienti di apprendimento in una prospettiva inclusiva;    precisa come si esprime il rapporto tra inclusione, qualità dell’educazione ed equità sociale.

«Tutte le discipline si occupano di impressioni, osservazioni, “fatti”, teorie e modelli alternativi di interpretazione. Ma ogni disciplina fa leva su osservazioni e inferenze caratteristiche; e, soprattutto, ogni disciplina ha maturato strumenti propri, proprie “mosse”, per conferire un senso a questi “dati” iniziali. Il compito di coloro che insegnano le varie discipline è davvero formidabile. Come spiegare comprensibilmente agli studenti che il mondo che essi conoscono in realtà è una collezione di mondi?

Come il ciabattino e il chirurgo vedono “l’uomo della strada” in ottiche completamente diverse, così lo scienziato, l’artista e lo storico affrontano le esperienze quotidi ane e i fenomeni che stanno alla base del l oro lavoro utilizzando lenti e strumenti assolutamente peculiari. La scuola forse non è in grado di dotare ogni studente dell’intero campionario delle lenti disciplinari; anzi, chi volesse fare di ogni giovane uno storico, un biologo o un compositore di musica classica sarebbe condannato all’insuccesso. Il nostro scopo non deve essere quello di accelerare la formazione degli studenti, ma di introdurli nel “cuore intellettuale” o nell’“anima esperienziale” di una di sciplina. La scuola consegue il proprio obiettivo se riesce a dare agli studenti un’idea di come il mondo appare a persone che usano occhiali diversi.»   Howard G ARDNER , Sapere per comprendere , Feltrinelli, Milano 2009

Esponi le tue riflessioni sul testo so pra riportato e sofferm at i, in particolare, sui seguenti pun ti:    i problemi della didattica disciplinare;    la trasmissione dell e nozioni e i percorsi comunicativi tra docente e discente;    acquisizione di nozioni o di modelli operativi di utilizzo delle compet enze;    la conoscenza come consapevolezza dei diversi punti di vista sullo stesso oggetto.

«Insistere unilateralmente sull ’ istanza libertaria o autoritaria deforma la natura effettiva dell ’ educazione. Numerosi errori educativi possono considerarsi il f rutto di una non adeguata o mancata composizione, e quindi della separazione antinomica, dei termini autorità- libertà . Soprattutto la storia dell ’ educazione e della pedagogia moderne possono configurarsi come una continua ripresa critica nei confronti dell ’autorità educativa in nome della libertà. In effetti, la tensione tra autorità e libertà è in educazione una costante ineliminabile: la chiarificazione del suo significato pedagogico non è un discorso chiuso, ma una dialettica che continuamente si riapre. In questa situazione, si dimostra un errore fissare autorità e libertà dentro un ’ irriducibile contraddizione; invece, sono termini correlativi e complementari: hanno valore se coniugati congiuntamente; separati, diventano termini pedagogicamente incompren sibili. In concreto, autorità e libertà sono valori che si sostengono reciprocamente in virtù di una dialettica non soltanto logica, ma esistenziale. [...] Libertà e autorità sono, infatti, da intendere come elementi dialetticamente dipendenti l ’uno dall ’ alt ro. La prima, benché non abbia il diritto di degenerare, è di per sé superiore, essendo il distintivo essenziale dell ’ uomo; la seconda è di per sé inferiore e non ha altro scopo diverso dal servire. [...] Positivamente, l ’autorità è tale se permette e salvag uarda la libertà dell ’educando in vista del suo pieno realizzarsi. La libertà, quale nota essenziale della persona, segna il limite dell ’autorità e lo specifico dell ’educazione.   Felice N UVOLI , L’autorità della libertà , SEI    Società Editrice Internaziona le, Torino 2010

A ppr ofondisci e discuti le suggestioni del testo - incentrato sulla dialettica d i autorità e libertà - in riferimento anche a questioni specifiche:    autorità/autoritarismo    libertà/istanze libertarie;    autorità e autorevolezza;    autorità/servizio    libertà/responsabilità;    il concetto di persona e la possibile composizione di autorità e libertà.

«Queste tre forme della coscienza di sé (coscienza linguistica, coscienza storica e coscienza morale), che sono naturalmente inseparabili dalla coscienza dell’altro, sono un modesto obiettivo per la scuola di domani. Oggi corriamo il pericolo di una specializzazione troppo precoce, che oltretutto accetta l’idea della lingua come fenomeno puramente utilitaristico. Secondo me, l’Europa - la cui genealogia storica è di tipo non utilitaristico - dovrebbe avere il coraggio di deporre nella scuola i l germe di un’educazione che si muova in direzione opposta all’utilitarismo dominante. Solo così si potrà reagire criticamente a tutta la macchina del conformismo culturale .»   Marc F UMAROLI , La scuola: contrappeso della modernità , in AA.VV., Di fronte ai cl assici , a cura di I. Dionigi, RCS Libri, Milano 2002

Considerato il brano sopra riportato, espon i le tue riflessioni sulle seguenti questioni:    quale rapporto intercorre fra un corretto processo di formazione della persona e un’impostazione utilitaristica d ell’educazione?

   che cosa si intende per coscienza linguistica, per coscienza storica e per coscienza morale?

   perché coscienza linguistica, coscienza storica e coscienza morale sono considerate t re forme della coscienza di sé?

  attraverso quali strumenti si promuove la formazione di tali tre forme della coscienza di sé?

Durata massima della prova: 6 ore. È consentito l’uso del dizionario di italiano. È consentito l’uso del dizionario bilingue (italiano- lingua del paese di pr ovenienza) per i candidati di madrelingua non italiana. Non è consentito lasciare l’Istituto prima che siano trascorse 3 ore dalla dettatura del tema

  Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca   BRP1 - ESAME DI STATO DI ISTRUZIONE SECONDARIA SUPERIORE   CORSO SPERIMENTALE - Progetto “BROCCA”   Indirizzo: SOCIO - PSICO - PEDAGOGICO

  Tema di: PEDAGOGIA

Il candidato svolga, a scelta, due dei seguenti temi proposti:

«L’espressione “visione del mondo” si riferisce, in generale, all’universo che ogni popolo, ogni cultura, ogni epoca e ogni individuo si costituiscono conferendo al mondo un determinato senso e un determinato valore. Tale visione non è mai definita e conclusa, ma sempre dinamica e aperta, perché dipende dall’attribuzione di senso (Sinngebung) che l’uomo di volta in volta dà al mondo. In questa attribuzione consistono la libertà dell’uomo e le radici ultime del suo modo di essere strettamente dipendente dalla visione che egli ha del mondo. Questa concezione, già presente nella cultura tedesca di fine Ottocento, è stata filosoficamente tematizzata da Dilthey, che col termine Weltanschauung ha indicato la generalizzazione dei dati culturali, artistici e filosofici che incarnano lo spirito di un’epoca, e da Jaspers, che nella visione del mondo ha distinto il versante soggettivo costituito dagli atteggiamenti e il versante oggettivo rappresentato dalle immagini con la precisazione che “atteggiamenti e immagini del mondo sono astrazioni, che separano ciò che in pratica coesiste”.»   U. GALIMBERTI, Dizionario di Psicologia, Milano, 1999

Il candidato esponga le sue riflessioni sull’argomento del brano sopra riportato e si soffermi, in particolare, sulle seguenti questioni: − che cosa si intende per visione del mondo? − c’è nell’educando l’esigenza di costruirsi una visione del mondo? e, in caso affermativo, da che cosa nasce tale esigenza? − quale rapporto intercorre fra processo educativo e costruzione di una visione del mondo da parte dell’educando? − quale ruolo deve svolgere l’educatore in riferimento a tale processo di costruzione?

«Io avevo definito la classe non come un luogo dove il ragazzo viene per apprendere dati conosciuti, ma come una struttura sociale nella quale si sviluppino comunicazioni e interazioni tali da far maturare la sua personalità. Oggi, per un insegnante, è difficile intuire le varie interazioni negative che si creano e si modificano all’interno di una classe. Questa è formata da individui diversi per estrazione sociale, sviluppo intellettivo ed educazione, rispetto alle grandi e alle piccole cose; e la scuola è considerata anche come frutto del pensiero genitoriale, che non si capisce mai del tutto in che modo viva la figura dell’insegnante. Dico questo perché in molti casi di cronaca si riscontrano le difficoltà degli insegnanti a scoprire certe situazioni drammatiche e a evitarle. Di certo non sono esigue le difficoltà attuali, loro e di tutto il sistema, riguardo alle classi dagli otto ai tredici-quattordici anni.   Segni indiretti come disattenzione, indifferenza, apprendimento ondulatorio, insicurezza o spavalderia, impulsi e situazioni sessuali eccessivamente ansiogeni, autosufficienza, o al contrario passività e dipendenza, possono essere campanelli d’allarme. Soprattutto se improvvisi.»   G. BOLLEA, Genitori grandi maestri di felicità, Milano 2010

Il candidato, seguendo il ragionamento dell’autore del testo sopra riportato, sviluppi il concetto di classe scolastica come struttura sociale, rilevando le possibili dinamiche comunicative e formative che si aprono fra gli alunni. Pag. 2/3 Sessione ordinaria 2011

«Si è spesso sottolineato l’effetto positivo che l’interazione sociale ha sul ragionamento dei bambini; l’interazione fornisce infatti un sistema di supporto sociale, in modo particolare per quanto riguarda le acquisizioni di tipo procedurale. [...] Le caratteristiche sociali e costruttive dei processi di apprendimento sono ancora largamente sottovalutate o non considerate nella maggior parte dei contesti educativi: per questa ragione, volendo studiare i processi sociali di acquisizione delle conoscenze abbiamo costruito (e inserito in un contesto scolastico) contesti di apprendimento innovativi che abbiamo definito «discussioni». [...]   Le discussioni a scuola infatti possono costituire un potente contesto per praticare e imparare nuove strategie di pensiero e ragionamento, a patto che vengano salvaguardate alcune condizioni per la loro realizzazione: ad esempio, partire da un’esperienza comune e condivisa e disporre di un oggetto di discussione realmente problematico anche per gli studenti.   È inoltre necessario cambiare i ruoli «sociali» del discorso a scuola: anche l’insegnante può imparare e anche gli studenti possono partecipare attivamente al processo di insegnamento/apprendimento. Come pratica di discorso collettivo una discussione è basata inoltre su abilità conversazionali di tipo più generale che i bambini hanno già imparato quando arrivano a scuola, addirittura quando arrivano alla scuola materna. Quello che devono ancora imparare è a dirigere e utilizzare in modo consapevole queste abilità all’interno delle pratiche di discorso tipiche dei processi di istruzione.»

  C. PONTECORVO, H. GIRARDET, C. ZUCCHEMAGLIO, Forme di ragionamento condiviso nella comprensione di argomenti storici, in La Condivisione della conoscenza, a cura di C. Pontecorvo, Firenze, 1993

Il candidato esponga le sue riflessioni sull’argomento del brano sopra riportato e, in particolare, si soffermi sui seguenti punti: − lo sviluppo del linguaggio nella preadolescenza; − l’utilizzo della pratica argomentativa in una classe della scuola primaria; − la discussione come strumento di miglioramento delle acquisizioni cognitive.Pag. 3/3 Sessione ordinaria 2011 Seconda prova scritta Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca

«Io cominciai la mia opera come un contadino che avesse a parte una buona semente di grano e al quale fosse stato offerto un campo di terra feconda per seminarvi liberamente. Ma non fu così; appena mossi le zolle di quella terra, io trovai oro invece che grano: le zolle nascondevano un prezioso tesoro. Io non ero il contadino che credevo di essere: io ero piuttosto un Aladino che aveva tra le mani, senza saperlo, una chiave capace di aprire quei tesori nascosti.

Infatti, la mia azione sui bambini normali mi portò una serie di sorprese. È logico intendere che quei mezzi che avevano prodotto nei deficienti un grande risultato educativo, potessero costituire una vera chiave per aiutare lo sviluppo dei bambini normali e che tutti i mezzi che avevano avuto successo nel fortificare le menti deboli e nel raddrizzare le intelligenze false, contenessero i principi di una igiene dell’intelligenza, ottima per aiutare le menti normali a crescere forti e diritte. [...]   I primi risultati mi gettarono nella più grande meraviglia e spesso nell’incredulità. [...] Il bambino normale attratto dall’oggetto vi fissava intensamente tutta la sua attenzione e continuava a lavorare e a lavorare senza posa, in una concentrazione meravigliosa. E dopo aver lavorato, allora appariva soddisfatto, riposato e felice. Il riposo era ciò che si leggeva su quei piccoli visi sereni, in quegli occhi di bambino brillanti di contentezza, dopo che era stato compiuto un lavoro spontaneo. Dopo aver lavorato il bambino era più forte, più sano mentalmente di prima.»   P. GIOVETTI, Maria Montessori. Una biografia, Roma, 2005

Il candidato, alla luce delle sue conoscenze ed esperienze, illustri: − le linee fondamentali del metodo montessoriano; − la funzione del maestro nella pedagogia montessoriana; − la pedagogia scientifica: teorie, movimenti ed esperienze tra Ottocento e Novecento. ___________________________   Durata massima della prova: 6 ore.   È consentito soltanto l’uso del dizionario di italiano.   Non è consentito lasciare l’Istituto prima che siano trascorse 3 ore dalla dettatura del tema

Lettera aperta al Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano

lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti di quell’unità nazionale che lei rappresenta.

Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benché nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani".

Alcuni di noi hanno anche avuto l’ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra gli addetti ai lavori.

Il degrado morale e politico che sta investendo l’Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso.

Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.

Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l’interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l’interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.

In una democrazia sana, l’interesse di una sola persona, per quanto investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere sull’interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato che non cederebbero a compromesso.

Ma l’Italia non è più un paese integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.

Quando l’istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l’obbligo di fare qualcosa per arrestarne l’avanzata. Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta che assistiamo a uno strappo.

Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente, chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a creare.

Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione. Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni, discriminazioni.

Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso l’autoritarismo che al colmo dell’insulto si definisce democratico: questa è l’eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli.

Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei.

Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali saluti

Francesco Gesualdi, Adele Corradi, Nevio Santini, Fabio Fabbiani, Guido Carotti, Mileno Fabbiani, Nello Baglioni, Franco Buti, Silvano Salimbeni, Enrico Zagli, Edoardo Martinelli, Aldo Bozzolini

  "Non distruggete la mia casa per i bambini". L’INFANZIA SORRIDENTE, LA SOCIETA’ DI "ERODE", E L’ULTIMO APPELLO DI GIOVANNI BOLLEA.

PER IL DIALOGO E LA PACE TRA LE GENERAZIONI E I POPOLI: Apriarno gli occhi, saniarno le ferite dei bambíni (deí ragazzi) e delle bambine (delle ragazze), dentro di noí e fuori di noí...Riannodiamo i fili della nostra rnemoria e della nostra dignità di esseri umani. Fermiamo la strage...

Linee per un Piano di Offerta Formativa della SCUOLA dell’AUTONOMIA, DEMOCRATICA E REPUBBLICANA.

CHI siamo noi in realtà? Qual è íl fondamento della nostra vita? Quali saperi? Quale formazione?

SCUOLA, STATO, E CHIESA: CHI INSEGNA A CHI, CHE COSA?!

  IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI...   E IL "DIO" ZOPPO E CIECO DELLA GERARCHIA DELLA CHIESA CATTOLICA, EDIPICO-ROMANA.

  Alla LUCE, e a difesa, DELLA NOSTRA DIGNITA DI CITTADINI SOVRANI E DI CITTADINE SOVRANE E   DI LAVORATORI E LAVORATRICI DELLA SCUOLA PUBBLICA (campo di RELAZIONE educativa, che basa il suo PROGETTO e la sua AZIONE sulla RELAZIONE FONDANTE - il patto costituzionale   sia la vita personale di tutti e di tutte sia la vita politica di tutta la nostra società),

  Per PROMUOVERE LA CONSAPEVOLEZZA (PERSONALE, STORlCO-CULTURALE) E   L’ESERCIZIO DELLA SOVRANITA’ DEMOCRATICA   RISPETTO A SE STESSI E A SE STESSE, RISPETTO AGLI ALTRI E ALLE ALTRE, E RISPETTO ALLE ISTITUZIONI   ("Avere il coraggo di dire ai nostri giovani che sono tutti sovrani": don Lorenzo Milani; "Per rispondere ai requisiti sottesi alla libertà repubblicana una persona deve essere un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi non abbiano un padrone o dominus, che li tenga sotto il suo potere, in relazione ad alcun aspetto della loro vita. [...] La libertà richiede una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di [...] tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli occhi e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza": Philippe Pettit)

  e un LAVORO DI RETTIFICAZIONE E DI ORIENTAMENTO CULTURALE, CIVILE, POLITICO e religioso (art.7 della Costituzione e Concordato),   per evitare di ricadere nella tentazione dell’accecante e pestifera IDEOLOGIA deII’INFALLIBILITA e deII’ANTISEMITISMO (cfr. la beatificazione di PIO IX) e di un ECUMENISMO furbo e prepotente, intollerante e fondamentalista (cfr. il documento Dominus Jesus di Ratzinger, le dichiarazioni anti- islamiche di Biffi, e il rinvio sine die dell’incontro fissato per il 3.10.2000 tra ebrei e cattolici) e di perdere la nostra lucidità e sovranita politica,

  e per INSTAURARE un vero RAPPORTO DIALOGICO e DEMOCRATICO, tra ESSERI UMANI, POPOLI e CULTURE, non solo d’Italia, ma dell’Europa e del Pianeta TERRA (e di tutto I’universo, cfr. Giordano Bruno),

  IO, cittadino italiano,figlío di Due IO, dell’UNiOne di due esseri umani sovrani, un uomoj ’Giuseppe’, e una donna:’Maria’ (e, in quanto tale, ’cristiano’ - ricordiamoci di Benedetto Croce; non cattolico edipico-romano! - ricordiamoci, anche e soprattutto, di Sigmund Freud),

  ESPRIMO tutta la mia SOLIDARIETA a tutti i cittadini e a tutte le cittadine della Comunità EBRAICA e a tutti i cittadini e a tutte lecittadine della comunità ISLAMICA della REPUBBLICA DEMOCRATICA ITALIANA,

  PROPONGO di riprendere e rilanciare (in molteplici forme e iniziative) la riflessione e la discussione sul PATTO di ALLEANZA con il qúale tutti i nostri padri (nonni...) e tutte le nostre madri (nonne...) hanno dato vita a quell’UNO, che è il Testo della COSTITUZIONE, e il ’vecchio’ invito dell’Assemblea costituente (come don Lorenzo Milani ci sollecitava nella sUa Lettera ai giudici, cfr. L’obbedienza non è più una virtù) a "rendere consapevoli le nuove generazioni delle raggiunte conquiste morali e sociali" e a riattivare la memoria dell’origine dell’uno, che noi stessi e noi stesse siamo e che ci costituisce   in quanto esseri umani e cittadini - sovraní, sla rispetto a noi stessi e a noi stesse sia rispetto agli altri e alle altre, e sui piano personale e sul piano politico,

  e di RAFFORZARE E VALoRIZZARE, in TUTTA la sua fondamentale e specifica portata, IL RUOLo e LA FUNZIONE deila SCUOLA DELLA nostra REPUBBLICA DEMOCRATICA.

  "A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione laiente, si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo*,   allora, al termine della catena, sta il lager.   Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano"

  "Tutti gli stranieri sono nemici.   I nemici devono essere soppressi.   Tutti gli stranieri devono essere soppressi".

  Primo Levi, Se questo è un uomo, Prefazione, Torino, Einaudi, 1973, pp. I 3-14.

  Andiamo alla radice dei problemi. Perfezioniamo la conoscenza di noi stessi e di noi stesse. Riattiviamo la memoria dell’Unita, apriamo e riequilibriamo il campo della nosha, personale e collettiva, coscienza umana e politica.

  Sigmund Freud aveva colto chiaramente la tragica confusione in cui la Chiesa cattolico-romana si era cacciata (cfr. L’uomo Mosè e la religione monoteistica): "scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre" ... Giuseppe (gettato per la seconda volta nel pozzo) e di dover teorizzare, per il figlio, il ’matrimonio’ con la madre e, nello stesso tempo,la sua trasformazione in ’donna’ e ’sposa’ del Padre e Spirito Santo, che ’generano’ il figlio!

Karol Wojtyla, nonostante tutto il suo coraggio e tutta la sua sapienza, fa finta di niente e, nonostante il ’muro’ sia crollato e lo ’spettacolo’ sia finito, continua a fare l’attore e a interpretare il ruolo di Edipo, Re e Papa.

QUIS UT DEUS? Nessuno può occupare il posto dell’UNO. Non è meglio deporre le ’armi’ della cecità e della follia e, insieme e in pace, cercare di guarire le ferite nostre e della nostra Terra?

"GUARIAMO LA NOSTRA TERRA": è il motto della "Commissione per la verità e la riconciliazione" voluta da Nelson Mandela (nel 1995 e presieduta da Desmond Tutu). In segno di attiva solidarietà, raccogliamo il Suo invito...   "La realtà è una passione. La cosa più cara" (Fulvio Papi). Cerchiamo di liberare ii nostro cielo dalle vecchie idee. Benché diversi, i suoi problemi sono anche i nostri, e i nostri sono anche i suoi...   E le ombre, se si allungano su tutta la Terra, nascondono la luce e portano il buio, da lui come da noi... "nell’attuale momento focale della storia - come scriveva e sottolineava con forza Enzo Paci già nel 1954 (cfr. E. Paci, Tempo e relazione, Milano, Il Saggiatore, 1965 - Il ed., p. 184) - la massima permanenza possibile della libertà democratica coincide con la massina metamorfosí verso un più giusto equilibrio sociale, non solo per un popolo ma per tutti i popoli del mondo".

* * Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, Febbraio 2001, pp. 49-53.

EDUCAZIONE, COSTITUZIONE, E AMOR DI PATRIA, OGGI.

1. GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN PRIVATO. Che male c’è?!

2. L’UNITA’ D’ITALIA E IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA PROPRIO ORA DI FARE CHIAREZZA! PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...

DOPO IL PARTITO "FORZA ITALIA", "LA PADANIA": LAVORI IN CORSO PER "LA PATRIA IMMAGINARIA". Una nota di Ilvo Diamanti

Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania

3. PRESIDENTE NAPOLITANO, PRESIDENTE AMIRANTE, IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI. Un invito e un appello a fare luce, a fare giorno

EDUCAZIONE, ECONOMIA E SOCIETA’. Il caso della Monaca di Monza nei "Promessi Sposi".

Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi

  È in Italia il terapeuta familiare Jesper Juul per lanciare il Family-lab a sostegno dei genitori   Alla base di tutto la critica ai metodi pedagogici che mirano a creare cittadini obbedienti

W la famiglia senza tetto né legge

  Si chiama Jesper Juul, è danese e si batte contro   i tradizionali metodi pedagogici. È in Italia   col nuovo libro «La famiglia che vogliamo» e col progetto «Family-lab» (www.family-lab.com.)

di Manuela Trinci (l’Unità, 21.6.10)

Una voce morbida, calda, dal ritmo veloce. Mani grandi come uno zio d’America e una bella pancia rotonda, accogliente come un cuscino. Jesper Juul si presenta così, placido e rassicurante, come un abitante del paese dei cerchi. Danese, terapeuta della famiglia, autore di vari libri, tra cui gli imperdibili long-seller: Il bambino è competente (Feltrinelli, 2001), e Ragazzi, a tavola! (Feltrinelli 2005), Juul è da un paio di mesi in Italia per presentare la sua ultima fatica La famiglia che vogliamo (Urra) e lanciare i Family-lab (www.family-lab.com), un progetto familiare al servizio dei ge- nitori, peraltro già molto diffuso in Europa (Germania, Austria, Danimarca, Svezia ecc...).

Con una premessa importante. Il celebre terapeuta non crede affatto che esistano metodi «educativi» esterni che garantiscono il successo o che sia possibile istruirsi o qualificarsi come padre e madre frequentando corsi. Tuttavia, questa «officina di famiglia», a fronte della grande solitudine dei genitori di oggi, tra conversazioni, dialoghi, serate a tema, riescono ad offrire «ispirazione, counselling e soprattutto condivisione».

Un progetto elastico, dove ai genitori, «costruttivamente insicuri e consapevoli», si propone la ricerca di altri modi di fare, di altre scelte possibili e si valorizzano sogni e voglie per raggiungere la famiglia che si desidera. Perché la famiglia che Juul vuole è un luogo di mediazione, di negoziati, di rispetto reciproco, di incoraggiamento dell’individualità. Un luogo senza recinzioni, di soggetti imperfetti e volenterosi, di errori, di incontri e di scontri.

Alla base di tutto, una fortissima critica sia ai metodi pedagogici più tradizionali basati su regole e regolamentazioni con l’obiettivo di creare futuri cittadini obbedienti quanto acefali, sia all’attuale potentissima manipolazione che, a tutto tondo, viene usata sui bambini tanto da violarne l’integrità emozionale ed esistenziale. E via anche dal vocabolario del versatile analista il sostantivo «educazione», sostituito dall’ espressione «guida empatica».

Il bambino, sostiene Juul, nasce competente e dispone già di nozioni, valori e criteri di valutazione che orientano concretamente la sua esperienza. Il neonato è un sentimentale: neuroscienze e osservazioni psicoanalitiche lo confermano da anni. Comunemente, invece, ci si comporta con lui come se fosse una specie di tabula rasa su cui i genitori devono imprimere le conoscenze necessarie per un regolare sviluppo umano e sociale. Sembra difficile impostare da subito un rapporto paritario, fra soggetti.

Il piccolo è un «centro attivo di competenze», collabora. Occorre osservarlo. E non basta incoraggiare, sostenere, facilitare il bambino; è indispensabile anche aiutarlo in situazione sociale come la nostra, più orientata verso il «fare» e il «non pensiero» a «esistere», a «sentirsi bene con se stesso».

Quelle di Jesper Juul sono idee semplici: stare di più tutti insieme, con cellulari, televisioni e computer spenti! Nessuno è un’isola, e allora cucinare, in maniera attenta e creativa, con i figli si rivela una gran risorsa. Le famiglie hanno bisogno di valori più sostanziali del «veloce, a buon mercato e facile». Anche per affrontare i problemi individuali c’è necessità di valori: pari dignità, integrità, autenticità, responsabilità come pure il ruolo di leadership dei genitori o la solidarietà sociale, nella scuola, dappertutto.

Ma non disdegna Juul di sovvertire bonariamente, di conferenza in conferenza, tanti luoghi comuni: la paghetta? E perché mai! Nelle relazioni gratuite d’amore, in cui c’è rispetto, l’aiuto lo si dà volentieri senza chiedere nulla in cambio! E i genitori? Che dire? Sempre d’accordo di fronte ai ragazzini? Solo se la famiglia è autoritaria replica, ancora, Juul. Diversamente non c’è alcun bisogno di essere d’accordo. I bambini non sono turbati dalle nostre differenze ma dai nostri litigi sulle differenze!

In ogni modo tranquilli: né i family-lab né i suoi libri si presentano come un prontuario terapeutico, anzi. Jesper Juul è il primo a suggerire, sornione, che «se con i vostri figli fate qualcosa che funziona e che è diverso da quello che dico io, continuate a fare come state facendo!»

  LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO (1994-2010). IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E IL SUO SOSIA GRIDANO ALL’UNISONO: FORZA ITALIA!!! LA DOMANDA E’: CHI E’ IL "PULCINELLA"?!, E CHI E’ IL "LUPO"?! E CHI IL PRESIDENTE DEL POPOLO DELLA LIBERTA’?!! IL ’GIOCO’ NON E’ ANCORA FINITO ...   I COSTITUZIONALISTI NELLA TRAPPOLA BIPOLARE

LA BANALITA’ DEL MALE: IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN.

A SCUOLA COME AL LAVORO: UNA CASERMA. LA COSTITUZIONE, L’AZIENDA, E IL SOGNO ATEO-DEVOTO DELL’IMPRENDITORE-PAPA:

Materiali: LA FIAT, POMIGLIANO, E IL SOGNO ATEO-DEVOTO DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE-PAPA. Un’analisi di Carlo Clericetti, con alcune note

LA BANDA DEI "FRATELLI D’ITALIA", DOPO AVER MESSO LE "BENDE" INTORNO ALLE PAROLE, ORA CANTA "VA PENSIERO"!!! E Adriano Prosperi, "cieco", continua a "sognare".

"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!

IL REGNO DEL MENTITORE. L’ITALIA SOTTO L’EFFETTO LUCIFERO

I veleni dell’Ecomafia che investe sulla crisi

di Roberto Saviano (la Repubblica, 7 giugno 2010)

Raccontano che la crisi rifiuti è risolta. Che l’emergenza non c’è più. Gli elenchi dei soldati di camorra e ’ndrangheta arrestati dovrebbero rassicurare che la battaglia è vinta. O almeno, questa è la versione. Molto distante, però, da ciò che realmente accade. Ogni anno Legambiente attraverso il suo Osservatorio ambiente e legalità produce storie e numeri: "Ecomafia".

Quello dei rifiuti è uno dei business più redditizi che negli anni ha foraggiato le altre economie. Come il narcotraffico, il fare affari con i rifiuti, sotterrare scorie tossiche, devastare intere aree, ha permesso alle organizzazioni criminali e a semplici consorterie imprenditoriali di accumulare capitali poi necessari per specializzarli in altri settori. Catene di negozi, imprese di trasporti, proprietà di interi condomini, investimenti nel settore sanitario, campagne elettorali. Sono tutte economie sostenute con i rifiuti. Esempio lampante ne è l’economia campana e i suoi gangli politici che si sono strutturati intorno alla crisi rifiuti.

Il mondo intero non si spiegava come fosse possibile che un territorio in Europa vivesse una piaga tanto purulenta. Come fosse possibile che le dolcissime mele annurche o le pregiate bufale campane, caratteristiche proprio di quelle zone, potessero trasformarsi improvvisamente in prodotti rischiosi per la salute. Possibile che convenga di più avvelenare che concimare e raccogliere?

Evidentemente sì, basta saperne leggere i vantaggi. L’emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l’anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. Di fronte a cifre come questa è comprensibile che nessuno avesse convenienza a porre rimedio all’emergenza. Rapporti di consulenza politica, assunzioni, e persino specializzazione delle ditte nello smaltimento; oggi le imprese campane del settore rifiuti, grazie anche ai soldi dell’emergenza e alla pubblicità - sembra assurdo parlare di pubblicità, no? - che ne hanno ricavato, sono tra le più richieste in Europa. Ma risolvere un’emergenza significa anche non averne più i benefici e gli utili. E in verità, nonostante i proclami, oggi si è risolto poco.

Si è tolta la spazzatura dalle strade ma, come afferma chi lavora nel settore, è solo fumo negli occhi, perché sta per tornarci. «Se non ci saranno altri impianti entro il 2011 la Campania, come molte regioni italiane, rischia una nuova crisi rifiuti». Sono parole dell’amministratore delegato dell’Asia (l’azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani.) Come un tempo, quindi, la spazzatura sta di nuovo per essere accumulata.

Resta quindi il problema di scongiurare una crisi da mancanza di discariche. Una crisi che sarebbe estremamente grave anche perché purtroppo in Italia sono ancora le discariche la valvola di sicurezza del sistema rifiuti. Come risulta dal rapporto di Enea e Federambiente queste continuano a ingoiare il 51,9 per cento del totale della spazzatura del nostro Paese e il 36,5 per cento senza nessun trattamento. Nel Sud le bonifiche delle terre avvelenate da decenni di sversamenti di veleni sono rare e lente. I rifiuti tossici hanno spalmato cancro prima nei terreni, poi nei frutti della terra, nelle falde acquifere, nell’aria. Poi addosso alla gente, nelle loro ossa e nei tessuti molli. Ogni ciclo di vita è stato compromesso.

La diossina, i metalli pesanti e le sostanze inquinanti vengono ingerite, respirate, assimilate come una qualunque altra sostanza. La pelle di ogni cittadino delle zone ammorbate trasuda sudore e scorie. Il cancro ha raggiunto percentuali molto più alte che negli altri Paesi europei. Gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica «The Lancet Oncology», già nel settembre 2004, parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite.

Ma l’ecomafia non è un fenomeno che appartiene solo al Sud. Nel Sud assume caratteristiche totalizzanti e più evidenti: nelle strade si inscena il dramma dei cassonetti incendiati, il puzzo accompagna ogni movimento, e il silenzio copre ogni cava, ogni singolo luogo dove è possibile accumulare e nascondere. Ma è sempre più il nord Italia il centro del vero business. E la novità di quest’anno, al di là del noto primato di Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, è che il Lazio si posiziona al secondo posto tra le regioni con il più alto numero di reati ambientali.

Tra le inchieste più rilevanti del settore, nel 2009, ce ne sono alcune con nomi fantasiosi, talvolta anche vagamente familiari. "Golden Rubbish", "Replay", "Matassa", "Ecoterra", "Serenissima", "Laguna de Cerdos", "Parking Waste". Alcune, già dal nome si riescono anche a localizzare geograficamente, e tutte quelle che ho citato sono inchieste che riguardano il nord Italia. È evidente che il Nord ce la sta mettendo davvero tutta per non essere secondo al Sud in questa gara all’autodistruzione.

La "Golden Rubbish" è un’inchiesta che vede coinvolta la provincia di Grosseto, ma ancora conserva legami con Napoli e la Campania perché ha preso le mosse da un’inchiesta che riguardava la movimentazione dei rifiuti prodotti dalla bonifica del sito industriale contaminato di Bagnoli. Si tratta di un traffico spaventoso: un milione di tonnellate di rifiuti e un sistema che ha coinvolto decine e decine di aziende di caratura nazionale.

L’inchiesta "Replay" è tutta lombarda e l’organizzazione criminale sgominata operava tra Milano e Varese. Un affiliato al clan calabrese che fa capo a Giuseppe Onorato è finito in manette insieme a un manipolo di colletti bianchi, tra cui funzionari di banche. Lombarda è anche l’inchiesta denominata "Matassa".

È trentina, e precisamente della Valsugana, l’inchiesta "Ecoterra" che ha bloccato un traffico illecito di scorie di acciaierie che venivano riutilizzate, senza alcun trattamento, per coprire discariche o per bonifiche agrarie. Come dimenticare Porto Marghera, dove l’operazione "Serenissima" ha scoperto il traffico illecito di rifiuti diretti in Cina. Ma anche nelle Marche l’"Operazione Appennino" ha intercettato un flusso criminale di scarti derivanti dalle lavorazioni delle industrie agroalimentari e casearie.

È umbra, invece, nonostante il nome spagnoleggiante l’operazione "Laguna de Cerdos" un traffico illecito di rifiuti liquidi di origine suinicola per cui la regione e i singoli comuni si sono a lungo palleggiati le responsabilità. Friulana, invece è l’inchiesta "Parking Waste" che ha smascherato lo smaltimento illecito di medicinali scaduti. In tutte queste inchieste, l’aspetto che più colpisce è il legame strettissimo che si è creato tra gestori delle ditte di smaltimento, politici locali e istituti di credito presenti sul territorio.

Tra le altre cose, vale la pena ricordare che a marzo l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per come ha gestito l’emergenza rifiuti in Campania. È stata condannata per "non aver adottato tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e danneggiare l’ambiente". E nella sentenza si legge che l’Italia ha ammesso che "gli impianti esistenti e in funzione nella regione erano ben lontani dal soddisfare le sue esigenze reali".

Come non rimanere colpiti da questo dato: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell’Everest, alto 8850 metri.

Se un cittadino straniero conservava l’illusione delle colline toscane e del buon vino, delle belle donne e della pizza gustata osservando il Vesuvio da lontano mentre il mare luccica cristallino, qualcosa inesorabilmente cambia. Tutto assume una dimensione meno idilliaca e più sconcertante. La domanda più semplice che viene da porsi è come può un Paese che dovrebbe tutto al suo territorio, alla salvaguardia delle sue coste, al suo cielo, ai prodotti tipici, unici nelle loro caratteristiche, permettere uno scempio simile? La risposta è nel business: più di venti miliari di euro è il profitto annuo dell’Ecomafia, circa un quarto dell’intero fatturato delle mafie.

Le mafie attraverso gli affari nel settore ambientale ricavano un profitto superiore al profitto annuo della Fiat, che è di circa 200 milioni di euro, e più del profitto annuo di Benetton, che è di circa 120 milioni di euro. Quindi in realtà usare il territorio italiano come un’eterna miniera nella quale nascondere rifiuti è più redditizio che coltivare quelle stesse terre.

Tumulare in ogni spazio vuoto disponibile rifiuti di ogni genere costa meno tempo, meno sforzi, meno soldi. E dà profitti decisamente più alti. Bisogna guadagnare il più possibile e subito. Ogni progetto a lungo termine, ogni ipotesi che tenga conto di una declinazione del tempo al futuro viene vista come perdente. Un euro non guadagnato oggi è un euro perso domani. Questo è l’imperativo del nostro Paese che vede coincidere mentalità dell’imprenditoria legale e criminale.

Per difendere il Paese, per continuare a respirare, è necessario comprendere che in molte parti del territorio il cancro non è una sventura ma è causato da una precisa scelta decretata dall’imprenditoria criminale e che molti, troppi, hanno interesse a perpetrare.

O quello delle ecomafie diventa il tema principale della gestione politica del Paese, o questo veleno ci toglierà tutto ciò che aveva permesso di riconoscere il nostro territorio. La speranza è che questo allarme venga ascoltato, e che non si aspetti di sentire la puzza che affiori dalla terra, che tutto perda di luce e bellezza, che il cancro continui a dilagare prima di decidersi a fare qualcosa. Perché a quel punto sarebbe davvero troppo tardi. E coloro che sono stati chiamati i grandi diffamatori del Paese sarebbero rimpianti come Cassandre colpevolmente inascoltate.

  ©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara   (Il testo pubblicato è la prefazione al volume "Ecomafia" di Legambiente che sarà in libreria mercoledì 9 giugno)

di Francesco Merlo (la Repubblica, 25.05.2010)

Da ministra del rigore a ministra del tempo libero, da sacerdotessa dello studium a fanatica dell’otium, da bacchetta che castiga a sbracata Lucignola che vuole mandare tutti i bimbi italiani nel paese dei balocchi.

Insomma «per favorire il turismo» la ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini vuole ritardare di un mese l’apertura dell’anno scolastico, dai primi di settembre ai primi di ottobre. Attenzione: non per ragioni didattiche né per qualche forma, sia pure contorta o distorta, di saggezza pedagogica, ma soltanto per allungare la vacanza, per aiutare l’industria del tempo libero, per fare divertire di più i ragazzi italiani che solitamente bastona e per fare riposare di più i professori contro i quali scaglia lampi ed emette tuoni.

Dopo avere maltrattato gli insegnanti come fannulloni ignoranti e avere insultato gli studenti come somari e pelandroni, dopo avere predicato il ritorno alla disciplina e al faticoso impegno, Nostra Signora dei Grembiulini ha dunque scoperto la virtù della pigrizia rilanciando il sogno di tutti gli asini del mondo e persino riproponendo quel modello sessantottino contro il quale si batte in maniera ossessiva: viva la strada che libera gli istinti e abbasso la scuola che li reprime.

Persino la Lega che solitamente incoraggia e istiga le numerose e creative riforme antimeridionali, xenofobe e anti eruopee della Gelmini, ha obiettato alla ministra che le mamme che lavorano non saprebbero letteralmente «dove mettere i bambini» e che la legge italiana impone agli insegnanti almeno duecento giorni di didattica l’anno, che è lo standard europeo del diritto allo studio.

Se non assistessimo all’agonia di un’istituzione che la ministra ha deciso di far saltare ogni mattina nel cerchio di fuoco potremmo limitarci a ridere per questa incoerente sparata a favore del torpore e della lentezza degli italiani che la ministra vorrebbe stiracchiare sino all’autunno, come ai tempi del libro Cuore, quando la scuola cominciava il 17 ottobre perché il signorino Carlo Nobis aveva bisogno di tre mesi di villeggiatura per rilassarsi e il muratorino, che era bravo a fare «il muso di lepre», ne aveva necessità per lavorare, come Precossi, figlio del fabbro ferraio e come Coretti che «si leva alle cinque per aiutare suo padre a portar legna e alle 11 nella scuola non può più tenere gli occhi aperti».

In realtà la Gelmini resuscita il morto per ammazzare il vivo. Non è vero che vuole tornare alla scuola di De Amicis perché coltiva nobili rimpianti, ma solo per ridurre i costi e malmenare ancora gli odiatissimi professori, i nuovi straccioni d’Italia. È per soldi che la Gelmini si è subito gettata su questa proposta del suo compagno di partito, il carneade Giorgio Rosario Costa, un commercialista di Lecce che sinora si era fatto notare proponendo l’istituzione dell’Albo Nazionale dei Pizzaioli, e che adesso deve averla sparata così tanto per spararla e non gli pare vero di essere stato cooptato dalla ministra nell’Accademia dei Saggi e degli Equilibrati.

Ormai gli italiani - anche quelli che la votano - hanno capito che la Gelmini ha una sola ossessione: tagliare, contabilizzare, chiudere e, insieme con l’agitatissimo Brunetta, umiliare e cacciare via. È infatti evidente che spostando l’inizio delle lezioni ad ottobre lo Stato risparmierebbe un mese di stipendio ai precari che per la ministra sono come la Comune di Parigi o la Moneda di Allende, le ultime roccaforti del potere sindacale e della sinistra miserabile. Più in generale se davvero riuscisse ad allungare le vacanze scolari di un altro mese la Gelmini taglierebbe le unghia a tutti gli insegnanti italiani contro i quali sta già per avventarsi la manovra economica con il blocco degli scatti automatici di anzianità e di qualsiasi rinnovo contrattuale. Che cosa vogliono questi fannulloni ai quali lo Stato ha regalato un altro mese di vacanze? Ecco un’idea di buon governo: togliere il lavoro a qualcuno per poi punirlo come scansafatiche, perdigiorno e parassita.

In realtà con l’ossessione che il libro e i processi formativi sono in mano alla sinistra, e con la missione di trasformare gli insegnanti nel nuovo sottoproletariato italiano la Gelmini aggredisce ogni volta che può il già malandato tempio attorno al quale si organizza l’Italia come comunità, il luogo che tiene in piedi la democrazia, lo studium appunto che - mai ci stancheremo di ripeterlo - vuol dire amore, passione e dunque vita: «A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dalla mattina presto sino alla sera tardi, estate e inverno, e non c’era ricreazione e non si faceva vacanza neppure la domenica».

L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...   L’UNITA’ INDIVISIBILE DELLA REPUBBLICA E L’UNITA’ DEI CITTADINI: QUALE RAPPORTO? QUALE "UNITA’" SI VUOLE COSTRUIRE E CUSTODIRE?! QUELLA DELL’"UNO" DELLA LEGGE E DEL DIRITTO O QUELLA DELL’"UNO" DEL FUORILEGGE E DELLA MENZOGNA? QUALE UNITA’ DA CUSTORIRE. Una nota di Michele Ainis

  (...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)

BENEDETTO XVI A MALTA, FREUD A LONDRA, E UNA BAMBINA: LA LEZIONE DI "MOSE’" DA NON DIMENTICARE.

ROMA BRUCIA. GRAZIE AL "TIMES" PER L’ALLARME, MA LONDRA NON RIDA (E ABBIA MIGLIOR CURA DI FREUD). L’incendio è generale. Un omaggio alla Sapienza di Oxford

  quei bambini puniti e umiliati: altro che paese cristiano

   Digiuno e castigo: scene dalla nuova Italia

  di Dario Fo e Franca Rame (il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2010)

Qualche giorno fa, stando davanti al video e seguendo un telegiornale, Franca ed io siamo rimasti sconvolti. La cosa si è ripetuta anche nei giorni successivi. Siamo venuti a sapere che proprio qui, in Lombardia, in un complesso di scuole per l’infanzia, elementari e medie, ci sono dei bambini che al momento della distribuzione del cibo nella mensa si sono trovati con davanti un piatto, dentro al quale c’era un pezzo di pane, e un bicchiere d’acqua; mentre nel piatto degli altri bimbi c’era pastasciutta, e appresso formaggio e anche la frutta. Perché? Perché i genitori dei puniti non avevano pagato la retta, o anche solo erano in ritardo, e quindi i figlioli non avevano il diritto di mangiare! Digiuni per castigo dovevano restare!

Pensiamo allo choc che devono aver provato questi ragazzini: fermi, davanti al panino, il bicchiere d’acqua; e gli altri che mangiavano. Sappiamo che alcuni fra i bambini, di quelli che avevano gli spaghetti, senza una parola ne hanno messo nel piatto vuoto dei compagni una o due forchettate.

Diciamo: una società che produce un dolore, una mortificazione, un’umiliazione di questo livello a dei ragazzini innocenti - ma che razza di società è? Che razza di valori ha nel corpo, nel cuore e nel cervello? Che cultura produce? Quale dimensione sociale? Ci siamo sentiti proprio male. E’ da ricordare che questi che inscenano spettacoli del genere sono gente nostra, della nostra razza. Sono loro che hanno ordinato di togliere il cibo ai bambini poveri, in quanto indegni dei vantaggi comuni. S’è saputo poi, che questi genitori non hanno mancato per strafottenza o per un atto di inciviltà, ma solo perché non avevano i denari per pagare la retta! E’ gente travolta dalla crisi, quasi tutti causa la perdita di un lavoro, e quindi senza paga, disoccupati. Ai gestori della cucina, ai gestori di questa economia e di questa scuola e del comune non importava niente. Importava: “Non paghi, non mangi”: anche se sei un bimbo devi soccombere, essere punito.

Di colpo ci è venuto in mente Sant’Ambrogio. Su di lui, il maggiore vescovo che la nostra città abbia avuto, abbiamo realizzato e messo in scena anche uno spettacolo al Piccolo Teatro di Milano, lo Strehler.

Siamo atei, ma abbiamo studiato profondamente la storia del cristianesimo. E abbiamo scoperto che Ambrogio possedeva un grande senso della collettività, che aveva preso parola, intervenendo con durezza al Senato di Milano, quando questa era stata eletta a Capitale dell’Impero d’Oriente e d’Occidente, portando avanti il diritto della dignità degli uomini: anche quando sono schiavi, anche quando sono privi di diritti.

Lui diceva: “Ricco signore, non t’accorgi che davanti alla tua porta c’è un uomo nudo, e tu sei tutto assorto a scegliere i marmi che dovranno ricoprire i muri. Quell’uomo chiede del pane e intanto il tuo cavallo mastica un morso d’oro. Tu vai in visibilio contemplando i tuoi arredi preziosi, e quell’uomo nudo trema di freddo di fronte a te e tu non lo degni di uno sguardo, non l’hai nemmeno riconosciuto. “Sappi che ogni uomo affamato e senz’abito che viene alla tua porta è Gesù; ogni disperato è Gesù. E lo incontrerai il giorno in cui si chiuderà il tempo del mondo e lui, quello stesso uomo, verrà ad aprirti e ti chiederà: ‘Mi riconosci?’. “Voi, ricchi, dite: ‘C’è sempre tempo per pentirsi e pagare i debiti’. Ma non c’è peggior menzogna. Ricchi, non vi è nulla nella vostra attività di uomini che possa piacere a Dio. Anche se tenete appesa una croce sopra il letto e disponete di una cappella dove pregare soli e assistere alla messa. Voi vi stringete ai vostri beni, gridando ‘È mio!’. No, nulla è vostro su questa terra”. “Schiacciate le vostre regole di infamia e di ingiustizia. Ridate il diritto a chi non ne ha... il pane a chi non ne può masticare, impedito dalla vostra grettezza! Distribuitene, finché siete in tempo, ai disperati, ai derubati dalla vostra insolente avidità. Nessun lascito sostanzioso alla chiesa e al suo clero vi salverà”.

“Vi dirò”, concludeva Ambrogio, “che non si può credere a un potere magnanimo, poiché chi lo possiede vuole tutto, anche le briciole. Perciò io sono per la comunità dei beni; io sono per l’uguaglianza fra uomini diversi. Perché solo il furto ha creato la proprietà privata”.

Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza

  Il convegno Due giornate dedicate alla filosofa-astronoma martire in nome del libero pensiero   L’eroina Morì nel IV secolo d.C. per mano delle armate cristiane: voleva «insegnare a pensare»

  Ospitiamo in questa pagina un articolo di Mariateresa Fumagalli, storica della filosofia, che anticipa i temi   dei quali parlerà al convegno dedicato a Ipazia il prossimo 20 aprile a Milano.

di Mariateresa Fumagalli (l’Unità, 13.04.2010)

Avvolta nel suo mantello Ipazia percorreva, libera e armata dalla ragione, le strade di Alessandria d’Egitto nel V secolo, parlando dell’Essere e del Bene, della inessenzialità delle cose materiali, della fragilità della vita, della bellezza della meditazione ai molti che la riconoscevano maestra di pensiero e di vita. «Atena in un corpo di Afrodite». Era naturale che qualcuno si innamorasse di lei e Ipazia con un gesto da filosofa «cinica» per disilludere l’innamorato mostrava le sue vesti intime macchiate del sangue mestruale a indicare lo «squallore della vita» e la verità dell’amore che deve superare il corpo.

Cosa insegnava Ipazia ammirata anche dai suoi allievi cristiani? In una città dove pagani, cristiani e ebrei convivevano non sempre in pace? È quasi impossibile saperlo con certezza: degli scritti di Ipazia, matematica astronoma e filosofa soprattutto, seguace della scuola di Platone e di Plotino nella turbolenta Alessandria d’Egitto di quei secoli, nulla è rimasto.

Paradossalmente quasi tutto quel che sappiamo del suo insegnamento lo apprendiamo dal suo allievo cristiano Sinesio, divenuto in seguito vescovo, ma non per questo meno filosofo. Sinesio la chiama «madre sorella e maestra» e nelle sue opere giovanili rispecchia probabilmente i temi del pensiero di Ipazia che si ispirava a sua volta a Plotino e, sembra, al suo allievo Porfirio.

Un altro cristiano (chiamato Socrate Scolastico per distinguerlo da quello antico, il maestro di Platone) scrive che Ipazia «con la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura si presentava in modo saggio davanti ai capi della città e non si vergognava di stare in mezzo agli uomini perché a causa della sua straordinaria sapienza tutti la rispettavano profondamente...». Dunque le cose erano un po’ più complicate di quel che appare nell’immagine convenzionale di Ipazia martire predestinata che in nome del libero pensiero e «in difesa della scienza sfida la chiesa».

Per prima cosa c’è da chiedersi «quale scienza e quale chiesa»? La scienza e la filosofia insegnata da Ipazia e dai neoplatonici, erano saperi congeniali a una religione della salvezza fondata sui valori dello spirito come il cristianesimo. Molti storici definiscono del resto la religione cristiana una forma di platonismo. Quanto alla religione cristiana oramai istituzionale, è vero, dopo gli editti di Costantino e Teodosio - la chiesa non era allora il corpo accentrato e potente che diverrà, e viveva conflitti interni violenti, divisa in nestoriani, ariani e altre sette. Niente di paragonabile alla forza organizzata e al pensiero solido della chiesa romana di un millennio dopo ai tempi di Galileo (paragone certamente anacronistico ma irresistibile a quanto pare).

Da dove nasceva allora il conflitto che opponeva filosofi e cristiani? «La divisione non avveniva fra monoteismo e politeismo» (E.R. Doods) come siamo abituati a credere: sia i filosofi pagani che quelli cristiani (Clemente, Origene, Gregorio Nisseno) pensavano che Dio fosse incorporeo, immutabile e al di là del pensiero umano. Per entrambi l’etica era «assimilazione a Dio»; si trattava tuttavia di sapienti che leggevano in parte gli stessi libri e assimilavano la virtù alla ragione.

Ma una differenza c’era: la filosofia neoplatonica parlava agli uomini colti, mentre il Vangelo si rivolgeva ai «semplici», notava il pagano Celsio con disprezzo e il cristiano Origene con orgoglio. È in mezzo a questi «semplici» o «illetterati» che Ipazia trova i suoi nemici, cristiani che si rifugiavano per forza di cose nella fede cieca diventando strumento dei più fanatici come del resto aveva già notato ai suoi tempi, allarmato S. Gerolamo. È una storia che si ripete. La massa degli illetterati e dei diseredati non aveva difese contro la angoscia che invadeva le menti, agitava i sogni, annullava le speranze di quei tempi duri.

Alessandria, come e più di altre città di quei secoli, viveva in una situazione di incertezza materiale e politica, timore di guerre, perdita di identità, caduta del benessere, scomparsa del senso del bene comune, in una età segnata dall’angoscia.

Rancori profondi e paure indistinte armavano le mani di coloro che erano in grado solo di ubbidire alle voci più estreme ascoltando i suggerimenti di chi nutriva progetti personali di potere. Una donna che andava sola per le vie annunciando la bellezza della filosofia, ossia la via della liberazione attiva dalle passioni e i modi della contemplazione, era il bersaglio naturale dell’odio che nasceva dalla paura.

Ipazia parlava in pubblico infrangendo antiche leggi scritte e non scritte , sconvolgeva pericolosamente le misere certezze che i capi suggerivano: insegnava a pensare, proprio lei, una donna, quell’essere che Aristotele aveva insegnato essere un uomo «diminuito» e inferiore... La politica aggiunse legna al fuoco: Cirillo vescovo di Alessandria, celebre teologo, nemico del governatore imperiale Oreste a sua volte vicino a Ipazia, ispirò o forse ordinò l’omicidio terribile della filosofa. Nel 1882 Cirillo di Alessandria fu dichiarato da Leone XIII Santo e Dottore della Chiesa.

  Due incontri   Da Canfora e Eco a proposito di Ipazia   l’Unità 13.4.10

In occasione dell’uscita in Italia il 23 aprile di «Agora», il nuovo lavoro di Alejandro Amenábar, la casa di distribuzione Mikado organizza due incontri per approfondire la vicenda del personaggio principale del film: Ipazia. Domani a Roma (ore 18,00, alla Sala Igea di Palazzo Mattei-Istituto della Enciclopedia Italiana, via Paganica, 3-4), in collaborazione con l’Istituto Treccani, interverranno il filologo e saggista Luciano Canfora, la storica bizantinista Silvia Ronchey, il filologo e critico letterario Carlo Ossola, il filosofo della scienza Giulio Giorello, i giornalisti Antonio Gnoli e Gabriella Caramore. A Milano, il 20 aprile alle 18, presso la Sala delle Colonne della Banca Popolare (via San Paolo, 12), in collaborazione con la rivista «Reset», saranno presenti all’incontro introdotto dal direttore della rivista Giancarlo Bosetti, lo scrittore Umberto Eco, la studiosa di diritto romano Eva Cantarella, il teologo Vito Mancuso, la medievalista Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri (che interviene in questa pagina). Parteciperà anche Alejandro Amenábar.

  Amenábar, dopo Cannes finalmente arriva in Italia-l’Unità, 13.04.2010

Protagonista di «Agora», il nuovo film di Alejandro Amenábar (regista di «Mare Dentro» e «The Others»), è la regina Ipazia (interpretata dall’attrice Rachel Weisz), prima scienziata della storia, celebre per la sua attività di matematica e astronoma. La sua è una figura tragica, inghiottita da improvvisa morte violenta per mano di quelle armate cristiane che nel IV secolo dopo Cristo annientarono intere civiltà in nome della verità rivelata. Le guerre che ne seguirono videro molti intellettuali di estrazione platonica massacrati crudelmente, specialmente quando di sangue ebreo. Tra questi c’era anche Ipazia. Il film uscirà nelle sale italiane il prossimo 23 aprile per Mikado, con enorme ritardo rispetto agli altri Paesi europei. «Agora» era stato presentato al Festival di Cannes 2009, tra applausi e fischi.

  Ipazia   La donna che sfidò la Chiesa

  Film, convegni, spettacoli teatrali dedicati alla figura femminile dell’antichità che in difesa della scienza e della filosofia affrontò la persecuzione fino alla morte   Fu Cirillo, vescovo cristiano di Alessandria, a eccitare la folla che la uccise   La lezione della ricerca della verità contro tutti i fondamentalismi religiosi

di Roberta De Monticelli (la Repubblica, 09.04.2010)

"Lo so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra ancora della sua febbre fina/ e anche del suo un po’ frenetico deliquio...". Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra la fine del IV secolo e l’inizio del V, nell’incendio della più grande biblioteca dell’Antichità, l’ultimo "sogno della ragione greca": simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell’astrolabio - secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico, non c’è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare la fama e l’ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di filosofia.

La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano, resta "una macchia indelebile" sul cristianesimo. Perché fu massacrata, pare, da una plebaglia fanatica ma eccitata alla vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco per la conquista della supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava, con l’epoca cristiana, l’orrore della violenza che invoca il nome di Dio invano - per la verità in tutti i luoghi e i tempi dove una religione diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore l’editto di Teodosio, con il quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione di stato.

Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario Luzi, che nello splendido piccolo dramma Il libro di Ipazia, pubblicato nel 1978, fa dell’antico discepolo della filosofa alessandrina il testimone pensoso di un’epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: "Città davvero mutata, talvolta cerco di capire/se nel tuo ventre guasto e sfatto/si rimescola una nuova vita/o soltanto la dissipazione di tutto./E non trovo risposta". E’ questa voce di poeta che prendiamo a guida di una possibile riflessione sull’impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e di luce anche per l’azione, quando essa lascia il suo "luogo alto, dove annidare la mente" e scende sulla piazza. Dove - come dice a Sinesio uno sconsolato amico - "l’intimazione della verità è un’arte di oggi,/come la persuasione lo fu di ieri". "Agora", appunto, si intitola il film su Ipazia del regista spagnolo Alejandro Amenábar, finalmente in arrivo anche da noi.

Si dice che sia "un duro atto d’accusa contro tutti i fondamentalismi religiosi", tanto duro nei confronti del neonato potere temporale della chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla sua programmazione nel nostro Paese. Vedremo: in attesa, può ben essere la splendida figura di questo vescovo perplesso a guidarci nella riflessione. "Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui".

Sinesio, neoplatonico lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene: quando ancora era indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell’armonia fra la ragione che governa le cose terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo in cui, invece - proprio come nel nostro - "la sorte della città è precaria/esige risoluzioni forti, parole chiare all’istante./Occorrono idee brevi e decise - oppure cinismo".

Ipazia poi è diventata simbolo di molte cose. Il contrasto fra gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad esempio - "le due summae del pensiero matematico greco e della mitologia ebraico cristiana", come scrisse Odifreddi". Oppure la possibilità provata che anche le donne sappiano pensare, ed eccellere addirittura nelle scienze matematiche: e se guardate in rete troverete ancora parecchie, un po’ incongrue, difese del pensiero "al femminile" condotte in suo nome (mentre parrebbe difficile dare un sesso alla geometria euclidea).

Ma noi ancora per un poco preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce di Sinesio, da quella del poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta stanza notturna di Ipazia, dove questa donna che "vede lontano", lontano al punto che "una luce d’aurora" promana da "quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo" - conduce la sua ultima conversazione con Dio. "Sono come sei tu. Perché io sono te./Te e altro da te". E’ colta di sorpresa, Ipazia: e oppone resistenza: "Perché ti manifesti ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta." Terribile la risposta: "Non lo sei ancora. C’è tutta l’enorme distesa del diverso,/del brutale, del violento/contrario alla geometria del tuo pensiero/che devi veramente intendere". Che devi veramente intendere: Ipazia così, nella perfetta fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca, Ipazia alla cui parola "si addice la temperatura del fuoco" si avvia verso quello che già intravede come l’estremo sacrificio. "Non c’è ritirata possibile, Sinesio./ Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti hanno creduto/nella forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione./Dobbiamo deflettere a lasciarli al loro disinganno?". E ancora, il poeta dà voce alla speranza che infine è quella di tutti noi, degli sconfitti: "La nostra causa è perduta, e questo lo so bene./Ma dopo? Che sappiamo del poi?/Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani."

Ma non c’è scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e fatta a pezzi. "Così finisce il sogno della ragione ellenica./Così, sul pavimento di Cristo". Ecco: Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale profondità intellettuale e spirituale, e di un modo d’essere fatto di luminosa intransigenza (così diverso da quello di Luzi, benché altrettanto preso nel sentimento dell’assoluto), che fantastico a volte potesse trattarsi di una figura capace di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla dialettica indulgenza di "Sinesio". Cioè di Luzi.

Un ultimo sconsolato lume di intelligenza illumina una scena che si restringe paurosamente dopo questa tragedia. Alessandria è un ricordo lontano, e anche l’urto dei mondi, la trasvalutazione dei valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere proprio con quella tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: "Spesso me lo ripeto:/ senza un’idea di sé/ da dare o da difendere/non si regna, si scivola a intrighi di taverna".

Tre convegni mentre arriva in Italia “Agora”. Parlano Canfora e Giorello

di Paola Casella (Europa, 14 aprile 2010)

«Che succederebbe se osassimo vedere il mondo esattamente come è?». Se lo domanda Ipazia, filosofa, matematica e astronoma greca vissuta fra il 370 e il 415 dopo Cristo, in Agora, il film di Alejandro Amenábar presentato a Cannes esattamente un anno fa, vincitore di sette Goya (gli Oscar spagnoli) e finalmente in procinto di approdare sui nostri grandi schermi. Ipazia, che riuscì a conseguire un grande prestigio e diresse la scuola di filosofia neoplatonica di Alessandria d’Egitto, venne uccisa dai Parabolani, membri di una confraternita cristiana che, ricorda Luciano Canfora, «erano la guardia del corpo del vescovo Cirillo che dal suo pulpito inveì in maniera ossessiva contro Ipazia e la sua corrente di pensiero, in modo che i suoi seguaci fanatici capissero che andava fatta fuori».

Un mandante morale, come si direbbe oggi? «Qualcosa di più: Cirillo ripeteva una predica che faceva chiaramente capire qual era il bersaglio da colpire». Canfora è uno dei relatori dell’incontro-dibattito che si terrà oggi pomeriggio a Roma presso l’Istituto Treccani, con l’obiettivo di «ricostruire la vicenda storica di Ipazia, figura simbolo della libertà di pensiero, della conoscenza e della ragione, e approfondire il dibattito sulla dialettica scienza/religione e sul dialogo tra le religioni e la cultura laica» (un analogo dibattito, alla presenza del regista di Agora, seguirà il 20 aprile a Milano).

«Il massacro di Ipazia, il suo strazio, la cui crudezza nel film viene attenuata forse per non offendere troppo la sensibilità dello spettatore, fu una triplice offesa: alla libertà di coscienza, all’indipendenza della ricerca scientifica e matematica, e al corpo della donna», dice Giulio Giorello, anch’egli atteso all’incontro romano. «È questo che rende la storia di Agora particolarmente attuale: oggi i fondamentalismi imperversano contro la scienza, la donna e la libertà di religione. Del resto l’intolleranza, il fanatismo e la superstizione sono tre mostri continuamente risorgenti: per citare Brecht, il ventre che li ha partoriti è ancora fecondo».

Alcuni ipotizzano che la Chiesa cristiana non prenderà bene il ritratto fortemente negativo che viene dato dei suoi accoliti - e spiegano così il ritardo con il quale il film esce in Italia, distribuito da Mikado. «Sarebbe una scelta molto miope da parte di qualunque Chiesa cristiana prendersela con un film che mette in scena giudizi storici tratti da Socrate Scolastico, teologo cristiano del quinto secolo che denunciò con chiarezza l’uccisione di Ipazia da parte di un gruppo di fanatici: se la Chiesa vuole difendere i fanatici faccia pure, perderebbe l’occasione di effettuare un serio esame di coscienza, come diceva papa Wojtyla, sui propri errori storici», dice Giorello. «D’altronde l’Italia è il paese dove non si ha il coraggio di rivendicare l’audacia intellettuale di figure come Giordano Bruno, che si sa come è morto. Agora ha invece il coraggio di raccontare la storia di un vescovo che pretendeva il diritto di interferire nella vita civile e di un prefetto romano battezzato che, per contro, rivendicava i diritti dello stato laico».

«Agora non è un film anticristiano ma filorazionale, in un’epoca di fondamentalismi contrapposti di tipo fanatico», precisa Canfora. «Quando i papi, ed è vero per Ratzinger come per Wojtyla, si vogliono sfogare se la prendono con l’Illuminismo e il Razionalismo. Dato il clima oscurantistico nel quale rischiamo di scivolare, ben venga questo film. Mi parrebbe sommamente ridicolo che le Chiese protestassero contro una verità storica che hanno già cercato di occultare in vari modi. La stragrande maggioranza della pubblicistica di ispirazione cattolica si è infatti schierata a difesa del vescovo Cirillo. Presto pubblicherò su una rivista francese un saggio dal titolo “Le manipolazioni cattoliche del racconto della vicenda di Ipazia” in cui citerò vari esempi: fra questi il fatto che nel Dizionario ecclesiastico curato da Angelo Mercati, custode dell’archivio vaticano, alla voce “Ipazia” si legge che la fonte antica che parla della sua uccisione su istigazione di Cirillo non è credibile perché visse un secolo più tardi. Ma Socrate era contemporaneo di Ipazia e fu testimone diretto dei fatti. Del resto non è l’unica fonte: ad esempio parlano dell’assassinio di Ipazia anche voci autorevoli come Damascio e Malalas. Anche la Storia del cristianesimo di Charles Pietri, cristianista francese cattolico, pubblicata alla fine del secolo scorso, racconta con molta chiarezza come sono andate veramente le cose: a dimostrazione che ci sono anche cattolici seri e sensati».

Fra gli altri meriti di Agora, che entrambi gli studiosi ritengono filologicamente attendibile, a parte qualche piccola licenza poetica, c’è quello di ricordare la tragedia dell’incendio della biblioteca di Alessandria, sempre ad opera dei Parabolani. «A quei tempi non esisteva l’industria editoriale, i libri erano tutte copie individuali tramandate grazie al lavoro degli amanuensi», ricorda Canfora. «La gravità di quella vicenda la capisce solo chi ha un’idea di come si diffondevano i libri nel mondo antico. Distruggere un patrimonio così, buttare nel fuoco un pezzo unico della cultura fu una vera follia».

Fondamentale infine che al centro della vicenda ci sia una donna «odiata anche perché donna. In Agora Cirillo cita la prima lettera di Paolo Apostolo ai Corinzi dove si dice che la donna deve restare muta. E Paolo era il cofondatore della religione cristiana».

  Ipazia, la congiura dei mediocri   In attesa di Agorà, ecco chi era la filosofa che diresse la scuola neoplatonica   Era ascoltata dal popolo e consultata dai potenti: per questo fu uccisa

  di Giovanni Ghiselli (il Fatto, 22.04.2010)

Sta per uscire Agorà, il film di Amenábar su Ipazia, una donna di grande levatura uccisa nel 415 d. C. da monaci fanatici detti parabalani, un’orda sanguinaria istigata al massacro dal vescovo Cirillo di Alessandria d’Egitto. Aspettando l’opera cinematografica, scopriamo chi era questa martire del pensiero. Utilizzerò fonti antiche: la Storia Ecclesiastica di Socrate Scolastico, le Epistole di Sinesio, un discepolo di Ipazia, neoplatonico e pure cristiano illuminato, che divenne vescovo di Tolemaide e morì poco prima di lei, rimpiangendone lo “spirito divinissimo”, poi un epigramma di Pallada, un maestro allontanato dalla scuola in quanto non cristiano, tutti contemporanei di Ipazia. Inoltre, la Vita di Isidoro di Damascio, ultimo scolarca dell’Accademia neoplatonica di Atene, fatta chiudere da Giustiniano nel 529. Gli autori sono concordi nel presentare Ipazia come intelligente, bella, generosa.

All’inizio del V secolo Alessandria era un centro commerciale e culturale tra i più importanti dell’impero romano d’Oriente e pure una città turbolenta per la presenza di tre gruppi religiosi che si facevano guerra: ebrei, cristiani e pagani. Ma vediamo i testi a partire dall’epigramma di Pallada: “Quando ti osservo, mi prostro davanti a te e alle tue parole,/vedendo la casa astrale della vergine,/infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto/Ipazia sacra, bellezza delle parole,/astro incontaminato della cultura”.

Ipazia nacque intorno al 370. Suo padre Teone le insegnò le scienze matematiche. La discepola divenne presto più brava del maestro. Diresse la scuola neoplatonica. Era ascoltata dal popolo e consultata dai potenti per la magnifica libertà di parola, per il fatto che era dialettica nei suoi discorsi e per le sue competenze matematiche, geometriche, astronomiche e filosofiche. Per tali motivi suscitò invidia, l’anima della congiura dei mediocri contro l’individuo eccezionale. La mente del complotto era Cirillo: la venerazione e il prestigio che pretendeva come capo della religione vincente, andavano a una pagana, a una femmina!

Il rancore divenne pernicioso, per Ipazia, quando l’iniquo prelato vide una ressa di uomini davanti alla casa di lei. Motivi sessuali non c’erano: Damascio racconta che la donna era vergine, sebbene facesse innamorare molti, e, addirittura, a un uomo malato d’amore, “gettò una delle pezze usate per il mestruo e gli disse: questo tu ami, giovane, niente di bello”. Cirillo “si rodeva a tal punto che tramò la sua uccisione, fra tutte la più empia”. Si può dire di Ipazia quanto P. B. Shelley scrisse dell’eroina di Sofocle: “Che sublime ritratto di donna! Alcuni fra noi, in una precedente esistenza, si sono innamorati di un’Antigone: ecco perché non troveranno mai completa soddisfazione in un legame mortale!”.

Ma torniamo ad Alessandria. Negli anni precedenti l’imperatore Teodosio “il Grande” aveva fatto distruggere gli edifici ellenici del culto e della cultura, e aveva promosso una serie di provvedimenti giuridici avversi al paganesimo. Teofilo, vescovo della città dal 385 al 412, un uomo violento, aveva eseguito con sadica sollecitudine, e Cirillo ne fu il degno erede e prosecutore, fino alla morte (444). Quindi venne proclamato Santo e Padre della Chiesa. Costui detestava Ipazia che parlava nell’agorá, liberamente, culturalmente e politicamente. Il suo magistero rappresentava una resistenza alla volontà di cancellare il pensiero e l’arte dei Greci.

Il vescovo non sopportava che Ipazia fosse la stella polare per tanti, a partire dal prefetto augustale Oreste, odiato anche lui dalla gerarchia ecclesiastica al punto che uno dei parabalani, Ammonio, lo ferì gravemente, colpendolo in testa con una pietra. Questo sicario venne processato secondo la legge e lasciato morire sotto tortura. Quindi Cirillo ne fece collocare il corpo in una chiesa, ne cambiò il nome in Thaumasios (ammirevole) e lo encomiò quale martire della religione cristiana. Sembra prefigurare il bandito della Magliana sepolto con i pii prelati. Nel 415 l’impero d’Oriente era retto da Pulcheria, figlia di Arcadio e nipote di Teodosio: ebbene costei era alleata di Cirillo. Ciò nondimeno “i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da Ipazia”, racconta Damascio. Cirillo bruciava di odio implacabile.

Vediamo la morte di Ipazia. Tornano in azione le squadracce che avevano tentato di uccidere Oreste. “Siccome ella si incontrava spesso con Oreste, l’invidia mise in giro la calunnia che fosse lei a non permettere che il prefetto si riconciliasse con il vescovo. Allora alcuni uomini infiammati si appostarono per sorprendere la donna mentre tornava a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa denominata Cesario.

Qui, strappatale la veste, la uccisero con dei cocci (ostrákois). Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, cancellarono ogni traccia di lei con il fuoco”. Fu attuata una forma inaudita, violentissima, di ostracismo. “Questo-conclude Socrate Scolastico procurò biasimo non piccolo a Cirillo e alla Chiesa di Alessandria ”. Un biasimo santo che si rinnova con il film Agorà. Con l’assassinio di Ipazia si chiuse un’epoca. Oramai i templi degli dèi e della cultura pagana, in primis il Serapeo con le sue biblioteche, erano stati distrutti, oppure snaturati come il Cesario trasformato in cattedrale cristiana, e Alessandria era stata svuotata della sua vita culturale, privata dei suoi studiosi, ammazzati o costretti alla fuga.   g.ghiselli@tin.it

Siate voi stessi il cambiamento che vorreste

  Il nuovo saggio di Jacques Attali è una guida alla sopravvivenza alla crisi   Sette i principi della strategia da seguire: dal rispetto per se stessi all’empatia, dalla resistenza all’applicazione del pensiero rivoluzionario

«Sopravvivere alla crisi. Sette lezioni di vita» di Jacques Attali è edito da Fazi (pagine 185, euro 17,50, traduz. E. Biotossi). «Il mio scopo scrive l’autore è quello di suggerire strategie precise e concrete che permettano a ognuno di “cercare uno spiraglio nella sventura” e di sapersi destreggiare tra gli ostacoli che si presenteranno, senza affidarsi ad altri per sopravvivere, per vivere meglio».

Economista, scrittore e banchiere francese, Jacques Attali è nato ad Algeri il 1 novembre 1943. Ha vissuto ad Algeri fino al trasferimento della sua famiglia a Parigi nel 1956.

di Jacques Attali (l’Unità, 11.4.2010)

Un giorno o l’altro questa crisi si concluderà, come tutte le altre, lasciando dietro di sé innumerevoli vittime e qualche raro vincitore. Ma ciascuno di noi potrebbe anche uscirne in uno stato di gran lunga migliore di quello con cui ci siamo entrati. Questo a patto di comprenderne la logica e il percorso, di servirsi delle nuove conoscenze accumulate in vari settori, di contare soltanto su se stessi, di prendersi sul serio, di diventare attori del proprio destino e di adottare audaci strategie di sopravvivenza personale. (...)

Ma, nel frattempo, occorre salvarsi dalla crisi attuale. Perché, contrariamente a quanto vogliono far credere le grida di trionfo di qualche politico e di un ristretto gruppo di banchieri, la crisi finanziaria del 2008 che non faceva altro che rivelare quella economica che veniva da molto più lontano è lungi dall’essere terminata. (...)

L’incapacità dell’Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi, che è la causa più profonda di questa crisi, è lungi dall’essere stata riassorbita. E la strategia messa in atto finora dai governi per rimediare è riassumibile nel far finanziare dai contribuenti di dopodomani gli errori dei banchieri di ieri e i bonus dei banchieri di oggi.

Di fronte ai pericoli del prossimo decennio, chi vorrà sopravvivere dovrà, come le avanguardie del passato, accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno; e che qualsiasi minaccia è anche un’opportunità per ognuno di noi, in quanto lo costringe a riconsiderare il proprio posto nel mondo, ad accelerare i cambiamenti nella sua vita, a mettere in atto un’etica, una morale, dei comportamenti, delle attività e delle alleanze radicalmente nuovi. Costui saprà che la sopravvivenza non implica per forza la necessità di aspettare questa o quella riforma generale, quella grazia o quel salvatore; che non esige la distruzione degli altri, ma soprattutto la costruzione di sé e l’attenta ricerca di alleati; che non risiede in un ottimismo illimitato, ma in un’estrema chiarezza in relazione a se stessi, in un desiderio selvaggio di trovare la propria ragion d’essere; la quale non è da costruire soltanto nel singolo momento, ma anche sul lungo periodo; la quale non è finalizzata alla conservazione di ciò che si è acquisito, ma può riguardare il superamento dell’ordine attuale; la quale non si limita soltanto a mantenere l’unità del proprio io, ma esige di prevedere tutte le possibili diversità.

Per arrivare a questo punto, costoro dovranno cominciare un lungo apprendistato relativo al controllo del sé, a cui nulla, per il momento, li prepara. (...) I sette principi di questo apprendistato saranno applicabili a qualsiasi epoca, qualsiasi minaccia e qualsiasi tipo di crisi. (...)

Questa strategia, frutto di un lungo ragionamento su quelle utilizzate finora, permetterà di sopravvivere in particolare ai rischi di disoccupazione, fallimento e declino. Essa si snoda, a mio parere, attorno a sette principi da attuare nell’ordine suggerito qui di seguito. Va da sé che la loro messa in opera richiede sforzi considerevoli e che pure io, come tutti, fatico molto a metterli in pratica.

1. Il rispetto di sé: innanzitutto, voler vivere, e non soltanto sopravvivere. Quindi, prendere pienamente coscienza di sé, attribuire importanza alla propria sorte, non provare né vergogna né odio verso se stessi. Rispettarsi e dunque cercare la propria ragione di vivere, imporsi un desiderio d’eccellenza in relazione al proprio corpo, alla propria conservazione, al proprio aspetto, alla realizzazione delle proprie aspirazioni. Per raggiungere questo scopo, non bisogna attendersi nulla da nessuno; occorre contare soltanto su se stessi per definirsi; non bisogna avere paura davanti a una crisi, quale che sia la sua natura; occorre accettare la verità anche se non è piacevole da ammettere; e bisogna voler essere protagonisti, né ottimisti né pessimisti, del proprio futuro.

2. L’intensità: proiettarsi sul lungo periodo; formarsi una visione di sé, per sé, da qui a vent’anni, da reinventare incessantemente; saper scegliere di compiere un sacrificio immediato se può rivelarsi benefico sulla lunga distanza; nello stesso tempo, non dimenticare mai che il tempo è prezioso, perché si vive una volta sola, e che bisogna vivere ogni momento come se fosse l’ultimo.

3. L’empatia: in ogni crisi e di fronte a ogni minaccia, a ogni cambiamento radicale, bisogna mettersi al posto degli altri, avversari o potenziali alleati; comprendere le loro culture, i loro modi di ragionare, le loro motivazioni; anticipare i loro comportamenti per identificare tutte le minacce possibili e distinguere tra amici e potenziali nemici; bisogna essere amabili con glialtri, accoglierli per stringere con loro alleanze durature, praticare un altruismo interessato e, a tale scopo, fare mostra di una grande umiltà e di una piena disponibilità intellettuale; essere in particolare capaci di ammettere che un nemico può avere ragione senza provare vergogna o rabbia per questo.

4. La resilienza: una volta identificate le minacce, diverse per ogni tipo di crisi, occorre prepararsi a resistere mentalmente, moralmente, fisicamente, materialmente, finanziariamente se una di esse dovesse concretizzarsi. Di conseguenza, bisogna pensare a costituire difese, riserve, piani alternativi, abbondanza e sicurezza a sufficienza, ancora una volta a seconda del tipo di crisi da affrontare.

5. La creatività: se gli attacchi persistono e diventano strutturali, se la crisi si radicalizza o si iscrive in una tendenza irreversibile, bisogna imparare a trasformarli in opportunità; fare di una mancanza una fonte di progresso; volgere a proprio vantaggio la forza dell’avversario. Ciò esige un pensiero positivo, il rifiuto della rassegnazione, un coraggio e una creatività pratica. Queste qualità si forgiano e si allenano come i muscoli.

6. L’ubiquità: se gli attacchi continuano, sempre più destabilizzanti, e non è possibile nessun loro impiego positivo, bisogna prepararsi a cambiare radicalmente, a imitare il migliore di quelli che sanno resistere, a rimodellare la rappresentazione di sé per poter passare nel campo dei vincitori senza perdere il rispetto di se stessi. Occorre imparare a essere mobili nella propria identità e, perciò, tenersi pronti a essere doppi, dentro l’ambiguità e l’ubiquità.

7. Il pensiero rivoluzionario: infine, occorre essere pronti, in una congiuntura estrema, in situazione di legittima difesa, a osare il tutto per tutto, a forzare se stessi, ad agire contro il mondo violando le regole del gioco, pur persistendo nel rispetto di sé. Quest’ultimo principio rinvia dunque al primo e tutti insieme formano così un sistema coerente, un cerchio. (...) Come diceva il Mahatma Gandhi: «Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo».

Traduzione di Emilia Bitossi © 2010, Fazi Editore

  PER LA CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. DONNE, UOMINI, E L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI "PREISTORIA" E DI "LABIRINTO" - OGGI ...   IL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.

  Pianeta Terra. Messaggio evangelico ed Ecumenismo: "DIO NON E’ CATTOLICO" (Carlo Maria Martini). E L’AMORE ( "CHARITAS") NON E’ MAMMONA (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006).   «Et nos credidimus Charitati...»!!! MAZZOLARI E GANDHI (E IL DIO "CARITAS" DI PAPA RAZTZINGER). Gandhi, al pari di un vero cristiano, ha creduto nella Carità. Una nota (1948) di don Primo Mazzolari

  A SIGMUND FREUD, GLORIA ETERNA. L’ordine simbolico della madre con il figlio ( "mammasantissima" con il "padrino" e la sua "andragathia" ) non ha niente a che fare con il "Padre Nostro" di Gesù e dei padri e delle madri degli esseri umani: Amore ("Charitas").   LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito

  Il medioevo che ci attende   La profezia di Jacques Attali

  Sono le classi dirigenti ad alimentare l’incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere   Nel suo ultimo libro l’economista francese fornisce alcune ricette contro la crisi   L’impossibilità dell’Occidente di mantenere questo tenore di vita senza indebitarsi   Dovremo adattarci alla mancanza di solidarietà e alla necessità di cavarcela da soli

di ANAIS GINORI(la Repubblica, 09.04.2010)

PARIGI. Dopo la crisi, le crisi. «Nel prossimo decennio il mondo attraverserà cambiamenti radicali, solo in parte collegati all’attuale situazione finanziaria. Ciascuno di noi sarà minacciato e dovrà trovare gli strumenti per salvarsi».

Nel suo ultimo libro (Sopravvivere alle crisi, Fazi Editore), Jacques Attali profetizza un mondo sempre più precario e ostile, nel quale le classi dirigenti sono incapaci di pensare nel lungo periodo e anzi alimentano l’incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere. «Dovremo abituarci a cavarcela da soli, come le avanguardie del passato» spiega l’economista, ex consigliere di François Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo.

Attali è uno degli intellettuali francesi più eclettici, capace di pubblicare opere su Karl Marx o sull’amore, ed è uno scrittore seriale. Si vanta di avere decine di libri già pronti nel cassetto, firma rubriche su molti giornali, colleziona consulenze e si occupa di Planet Finance, una Ong specializzata in progetti di microcredito. Instancabile, sempre di corsa. Come il mondo che prefigura.

Quali altre crisi ci aspettano?

«La crisi finanziaria del 2008 non è affatto terminata, nonostante i proclami trionfanti di qualche politico e banchiere. Quelli che gli anglosassoni definiscono "germogli" di ripresa sono, a mio avviso, soltanto segnali passeggeri. Molte banche continuano a essere insolventi, i prodotti speculativi più rischiosi si accumulano come e più di prima, i disavanzi pubblici sono ormai fuori controllo, il livello della produzione e il valore dei patrimoni restano in grandissima parte inferiori a quelli precedenti la crisi. La causa più profonda di questa crisi è l’impossibilità per l’Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi: su questo non è stata avviata un’adeguata riflessione».

Il peggio deve ancora venire?

«Nel 2020 la popolazione mondiale passerà da 7 a 8 miliardi e la classe media mondiale rappresenterà circa la metà degli individui che vorranno allinearsi al modello occidentale. Questo comporterà nuovi punti di criticità a livello ecologico. Nello stesso periodo assisteremo a progressi scientifici considerevoli, come le nanotecnologie, le neuroscienze, le biotecnologie. Ogni nuova scoperta scatenerà problemi etici e di possibili utilizzi secondari per scopi criminali o militari».

Tornando all’economia, dove finisce il tunnel?

«La congiuntura economica ci riserverà altre brutte sorprese. Personalmente, temo il ritorno dell’iperinflazione scatenata all’enorme liquidità creata dalle Banche centrali, la possibile esplosione della "bolla cinese" per colpa degli eccessivi crediti concessi e della sovraccapacità produttiva della Repubblica Popolare. Il sistema pubblico della sanità e dell’istruzione, per come l’abbiamo conosciuto finora, diventerà insostenibile per gli Stati. Il nostro stile di vita, sempre più precario e meno solidale. Chi vorrà sopravvivere dovrà accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno. Andiamo verso un mondo che assomiglia al Medioevo».

Non le sembra esagerato parlare di un ritorno al passato remoto?

«Come nel Quattrocento, il potere sarà concentrato in alcune città e alcune corporazioni. Già oggi 40 città-regioni producono due terzi della ricchezza del mondo e sono il luogo dove si realizza il 90 per cento delle innovazioni. In mancanza di una vera organizzazione globale, si diffonderanno epidemie e catastrofi naturali climatiche ed ecologiche. Ci saranno sempre più zone "fuori controllo", dove imperverseranno organizzazioni criminali e bande armate. I ricchi dovranno rifugiarsi in moderne fortezze».

E tutto questo sarebbe dovuto anche all’incapacità delle classi dirigenti e al fallimento del sistema di governance mondiale?

«Di fronte a una crisi, qualunque essa sia, la maggioranza degli individui comincia con il negare la realtà. Purtroppo questo meccanismo si applica perfettamente anche alle imprese e alle nazioni. Finora i governi hanno adottato una strategia che fa finanziare dai futuri contribuenti gli errori dei banchieri di ieri e i bonus di quelli di oggi».

Lei ha presieduto la Commissione per la liberazione della crescita voluta dal governo Sarkozy, ma le riforme che aveva proposto sono state disattese. Anche nel caso della Francia manca il coraggio di preparare il futuro?

«Quello che più mi colpisce è che molti potenti vorrebbero tornare rapidamente al vecchio ordine, anche se è quello che ha scatenato la crisi finanziaria. Nell’attuale modello economico l’impresa è passata al servizio del capitale, a sua volta manipolato dalle leggi della Borsa. Le cose stanno così dal 1975, data dell’invenzione delle stock-options negli Stati Uniti».

Non è una visione troppo apocalittica?

«Non bisogna farsi prendere né dall’ottimismo né dal pessimismo. Negli ultimi 650 milioni di anni, la vita è praticamente scomparsa sette volte dalla superficie della Terra. Oggi rischiamo che succeda un’altra volta. Ma qualsiasi minaccia è anche un’opportunità. Quando si arriva a un punto di rottura siamo costretti a riconsiderare il nostro posto nel mondo e a cercare un’etica dei comportamenti completamente nuova. Sopravviverà di noi solo chi avrà fiducia in se stesso, chi non si rassegnerà. Ho affrontato parecchie crisi. E per questo ho pensato anche di raccogliere le mie lezioni di sopravvivenza».

Lei suggerisce il dono dell’ubiquità: cosa significa?

«I miei principi sono sette, da attuare nell’ordine. Innanzitutto bisogna partire dal rispetto di sé, e quindi prendere consapevolezza della propria persona, e dall’intensità, ovvero vivere pienamente sapendo proiettarsi nel lungo periodo. Ci sono poi l’empatia, indispensabile per capire gli altri, avversari o potenziali alleati, la resilienza che ci permette di costruire le nostre difese e la creatività per trasformare le minacce e gli attacchi in opportunità. Se questi cinque principi non funzionano bisogna cambiare radicalmente, coltivando l’ambiguità o persino l’ubiquità, imparando a essere mobili nella propria identità».

Ci lascia insomma un po’ di speranza...

«L’ultima lezione riguarda il pensiero rivoluzionario. In condizioni estreme, bisogna osare fino anche a violare le regole del gioco. Nessun organismo può sopravvivere senza operare una rivoluzione al suo interno. Ma tutto dovrà sempre partire dall’individuo. Come diceva Mahatma Gandhi: "Siate voi stessi il cambiamento che volete realizzare nel mondo"».

Ha appena pubblicato il primo "iperlibro", un volume cartaceo integrato da contributi audio e video. È questo il futuro della lettura?

«Non credo alla morte dei libri tradizionali. Ma è evidente che i giovani crescono imparando a leggere su uno schermo. Per loro sarà normale sfogliare una tavoletta elettronica come noi sfogliamo un libro. Anche quella dell’editoria è una crisi che si supera solo con il cambiamento».

La lezione di una lunga passeggiata

(CLICCARE, QUI AVANTI, PER LEGGERE IL TESTO->) Nel 1910 giovane docente dell’Accademia teologica di Mosca, Florenskij iniziò un corso di lezioni sulla storia della filosofia. Quando le diede alle stampe, nel 1917, vi premise una breve introduzione metodologica, dove, esponendo la sua originale didattica, metteva in gioco i principi fondamentali del suo modo di concepire l’insegnamento. Queste brevi pagine, spesso citate ma fino a oggi inedite in italiano, saranno pubblicate nel prossimo numero della rivista "La Nuova Europa" che quest’anno compie cinquant’anni di attività, nell’articolo "Lezione e lectio", che riportiamo integralmente.

"La violenza sui minori piaga sociale non ancora estirpata" *

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione della XIV Giornata dei bambini vittime della violenza, dello sfruttamento e dell’indifferenza, ha inviato al Presidente dell’Associazione Meter, don Fortunato Di Noto, per il tramite del Segretario generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra, un messaggio di apprezzamento per l’iniziativa che "conferma un momento significativo di riflessione e di confronto su una piaga sociale non ancora estirpata".

La XIV Giornata "ripropone alle coscienze dei singoli e dell’intera collettività il valore universale dell’intangibilità dei minori e l’imperativo etico della loro piena tutela nel percorso di crescita fisica, psicologica ed intellettuale.

La salvaguardia dell’infanzia costituisce un principio assoluto non solo nel sistema giuridico, ma anche nella sensibilità comune che respinge gli esecrabili episodi che violano e ledono l’età dell’innocenza, così come ogni forma di indifferenza e di rimozione di fronte a condizioni estreme di povertà e di malnutrizione che provocano ai minori sofferenze intollerabili e danni alla salute spesso irreversibili.

Purtroppo si deve però constatare che appare ancora lontana la piena osservanza di questi principi che hanno faticosamente superato, grazie all’apporto di più moderni indirizzi pedagogici, antichi modelli di organizzazione sociale insensibili alle peculiari esigenze dei bambini".

  A DIFESA DELL’INFANZIA E CONTRO UNA PEDAGOGIA PREISTORICA, L’ACCUSA DI ALICE MILLER. LE AUTORITA’ SPIRITUALI DEL NOSTRO TEMPO SONO SORDE E CIECHE. Un brano dal suo nuovo saggio «Riprendersi la vita»

  PAPA RATZINGER, ANNO SACERDOTALE E PEDOFILIA. I PASTORI SI MANGIANO LE PECORE? E’ "UN FENOMENO RIDOTTO"!!! Il ’rassicurante’ bilancio di Monsignor Charles J. Scicluna, il «promotore di giustizia» del Vaticano.

  GIOACCHINO DA FIORE INVITA BENEDETTO XVI AD APRIRE PORTE E FINESTRE IN VATICANO. La Chiesa, il bunker di Papa Ratzinger, e lo Spirito di Gioacchino   Lo scandalo del sacro   La pedofilia strutturale della Chiesa   Il mea culpa che Ratzinger non fa

  Il Cervo alla fonte (della Sapienza)   lL "LOGO" DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, E L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO: FORZA "CHE RùBINO" TUTTO E TUTTI !!! PER IL "logo" della "SAPIENZA" DI ROMA, UN APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.

  Il presidente della Repubblica alla cerimonia di commemorazione delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine   "Dalla tragedia della guerra e barbarie nazista è scaturita la fondazione dello Stato democratico"

  Napolitano: "Rispettare e onorare   la Costituzione e tutte le istituzioni" *

ROMA - "Noi dobbiamo onorare la Costituzione anche rispettando tutte le istituzioni dello Stato democratico", ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lasciando le Fosse Ardeatine dove ha presenziato la cerimonia di commemorazione delle 335 vittime dell’eccidio nazista del 24 marzo 1944 di cui ricorre oggi il 66esimo anniversario.

Dopo aver visitato il sacrario, il presidente della Repubblica si è soffermato un attimo riflettendo ad alta voce: "Ho il dovere, come si sa e come è scritto nella Costituzione, di rappresentare l’unità nazionale", e quindi "sono qui per ribadire cosa abbia rappresentato il superamento della guerra e della tragica esperienza della barbarie nazista". Tragedia dalla quale è scaturita "la fondazione dello Stato democratico e la Costituzione, che noi dobbiamo onorare anche rispettando tutte le istituzioni dello Stato democratico". "Tenere unito il Paese, non penso ad altro che a questo: a come influire su questo per la mia parte", ha aggiunto Napolitano, spiegando come intende la sua funzione costituzionale di rappresentante dell’unità nazionale.

Napolitano ha partecipato alla cerimonia insieme al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, e al vicepresidente del Senato, Vannino Chiti. All’iniziativa hanno preso parte anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il presidente della Corte Costituzionale Francesco Amirante, il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, il vice governatore del Lazio, Esterino Montino, la candidata del centrodestra alle Presidenza della Regione Renata Polverini, il capo di stato maggiore della difesa Vincenzo Camporini, il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna, il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici e Armando Cossutta.

Il presidente Napolitano, affiancato dal ministro La Russa, ha deposto una corona d’alloro all’ingresso delle Fosse Ardeatine, osservando un minuto di raccoglimento in memoria delle vittime. Quindi, dopo il "Silenzio" suonato dal picchetto dei Lancieri di Montebello, è iniziato il mesto appello della 335 vittime della strage nazista. Al termine il capo dello Stato è stato salutato da alcune scolaresche presenti alla cerimonia e ha osservato che "i giovani partecipano come mai avvenuto prima".

se leggi con attenzione, come puoi ben capire, sono proposte ipotetiche, tracce im-possibili, su cui riflettere (e non solo per l’esame) e per le quali (per aiuto) vengono forniti materiali (articoli e documenti).

Se vuoi, sono una sollecitazione a fare approfondimenti sugli argomenti proposti e ... ad allenarsi pe la prova di maturità - vera o propria. Questo il senso.

Mi auguro che il lavoro di documentazione possa essere utile a Te e a quanti e a quante devono affrontare la Maturità.

M. grazie per il tuo intervento e cordiali saluti.

Questi sono giorni cupi per chi - per condizione esistenziale o per mestiere - assolve a funzioni educative. Infatti la vicenda delle liste elettorali ha molte conseguenze nella vicenda politica e in quella relativa al più vasto patto tra cittadini e tra questi e le Istituzioni.

Ma rappresenta anche una ferita mortale a quella decisiva funzione umana che è l’educare.

Noi tutti, infatti, possiamo pretendere di educare i nostri figli, gli alunni o chi da noi vuole imparare un’arte o uno sport, solo se sono salvate alcune inderogabili condizioni. Se ci assumiamo il carico dell’esempio e del modello da fornire e, dunque, curiamo noi per primi la coerenza tra i proponimenti dichiarati e i comportamenti. Se presidiamo con costanza le procedure, le regole e i limiti, permettendo, in tal modo, ai più giovani di potervi fare i conti attraverso la adesione progressiva, per prove ed errori.

Ma poiché il mondo è imperfetto e noi con esso, dobbiamo anche assumerci - nella umana possibilità che le regole vengano disattese - l’onere di pretendere l’umiltà necessaria a rimediare alle conseguenze di tale disattesa. E se questo vale per i più giovani, vale a maggior ragione quanto più si è avanti negli anni e quante maggiori responsabilità si assumono. E’ per questo che si educa al saper chiedere scusa sapendola chiedere a nostra volta. E che si attribuisce generale valore alla fatica delle ammissioni pubbliche di inadeguatezza ed errore. E che le si accoglie quando vi è una qualche sincera forma di contrizione e una riflessione leale sugli sbagli commessi. E non quando c’è la pretesa di avere torto e di invocare al contempo ragione.

Nel modo in cui si è preteso di rimediare al «pasticcio» sulla presentazione delle liste, ben al di là del merito della soluzione trovata, è evidente che chi occupa la posizione non solo politica ma simbolica del governo del Paese ha disatteso a queste funzioni adulte. E ha procurato una ferita simbolica severa al nostro poter educare. E con ciò ha indebolito - più di quanto già non lo sia - il papà che pretende coerenza tra la promessa ricevuta e gli atti del proprio figlio, il preside che prova a far rispettare gli orari e, se questi vengono disattesi, pretende le scuse prima della riammissione in aula, il mister della squadra di calcio di adolescenti di periferia che chiede ai ragazzi di seguire le regole e di rispettare l’arbitro e anche di ammettere il fallo commesso, la maestra di scuola d’infanzia che chiede alla bimba di quattro anni di non sgomitare per arrivare prima dei compagni e, se rimessa in fondo alla fila, di non pretendere di avere avuto ragione comunque.

Ci può essere una via di uscita? Certo. Chiedere scusa. Semplicemente e seriamente. Con la generosità leale che il gesto richiede. Sapendo che poi ci saranno degli atti conseguenti, da costruire insieme agli altri. Che dovranno a loro volta disporsi per farlo. Come accade per ogni riparazione. E se, per una volta, miracolosamente, questo fosse accaduto, sarebbe stato un piccolo regalo alla capacità di questo Paese di ritornare ad educare.

Un libro analizza la metamorfosi del ruolo paterno nella società e nella famiglia: prima uomo forte poi affettuoso e "mammo"

  DA PADRE A PAPA’   Così è cambiata l’autorità

  di Loredana Lipperini (la Repubblica, 01.02.2010)

La figura inizia a indebolirsi nel Settecento quando l’infanzia diventa oggetto di studio Il primo padre di cui abbiamo notizia aspetta il ritorno del figlio, ascolta il resoconto del suo compito scritto, gli chiede di recitargli la tavoletta d’argilla e infine "ne rimane contento". Avveniva quattromila anni fa, in Mesopotamia.

Da qui parte il lungo cammino di Maurizio Quilici, giornalista, fondatore e presidente dell’Istituto Studi sulla Paternità, autore di Storia della paternità: dal pater familias al mammo (Fazi, pagg. 500, euro 23): una cavalcata attraverso i millenni per studiare i mutamenti di una figura che, a fronte della crescente esposizione mediatica, mancava di una ricostruzione storica: "Fino a pochi decenni fa la paternità, a differenza della maternità, non ha avuto dignità di oggetto nelle analisi storiche, sociologiche, psicologiche e, tranne qualche eccezione, neppure nell’ambito della narrativa".

Uno sguardo indietro che risulta utilissimo, negli anni della paternità "dolce", per riflettere su cosa sia stata l’autorità paterna: un misto di potere e cura, come per i padri della Grecia antica, cui spettava la decisione sulla sopravvivenza dei neonati gracili o indesiderati e che pure erano legati alla prole da un vincolo reciproco di responsabilità e dovere. Ma anche da reciproco timore: la mitologia greca nasce da Urano, e da un rapporto padre-figli fatto di odio e rivalità.

Il parricidio era il grande terrore degli antichi e, conseguentemente, i figlicidi del mito sono innumerevoli: uccidono, sia pur inconsapevoli, Ercole e Teseo, Tantalo cucina le carni di Pelope, Idomeneo e Agamennone non esitano a sacrificare la discendenza sperando nel favore di una divinità. Ma ci sono anche i padri amorosi: c’è il disperato tentativo di Dedalo di salvare Icaro e di insegnargli la via giusta per il cielo e c’è, soprattutto, Ettore, che solleva fra le braccia il figlio Astianatte con tenerezza e orgoglio, augurandosi che il figlio possa oltrepassarlo in forza.

Il terrore del parricidio era diffuso anche presso i romani, la cui storia stessa si identifica con la figura del padre, il magistrato domestico che può condannare a morte il proprio figlio (come fece Tito Manlio Torquato) perché ha trasgredito a un ordine. Eppure, l’Eneide si fonda sulla devozione dell’eroe nei confronti del padre. L’ambivalenza fra amore, rispetto e autorità attraversa anche il Cristianesimo, che pure riduce il potere paterno anteponendogli il potere divino, raggiunge e supera il Medioevo.

Se nel Decameron padri assassini e generosi si alternano, Cecco Angiolieri non esita a cantare il parricidio: "S’i’ fosse morte, andarei da mi’ padre". Beatrice Cenci la diede al violento e crudele Francesco. Bisogna arrivare a John Locke e ai suoi Pensieri sull’educazione (1693) per trovare frasi come questa: "il padre, quando suo figlio sia cresciuto e in grado di comprenderlo, farà bene a intrattenersi familiarmente con lui e perfino a chiederne il parere e a consultarlo in quelle cose di cui egli ha qualche conoscenza".

L’indebolirsi dell’autorità paterna inizia nel Settecento, secolo in cui l’infanzia comincia a essere oggetto di attenzione e il diritto di natura conduce alla madre: il diritto paterno non viene negato, ma deriva dal vivere civile e dalle sue leggi. Di pari passo, inizia la ribellione aperta, che trova il suo simbolo nel rapporto fra Monaldo e Giacomo Leopardi che, nei Pensieri, così scriverà: "colui che ha il padre vivo, comunemente è un uomo senza facoltà". La potestà paterna è la schiavitù dei figli, che non possono compiere alcuna grande azione, sostiene il poeta: nel 1819, progettando la fuga, Leopardi scrive una lettera al padre che Giorgio Manganelli definisce "un grande, straordinario pezzo di bravura" per amarezza, deplorazione, umiltà e scatto tirannicida: "Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo". La fuga non riuscì, la lettera non venne mai consegnata.

Di questi padri ostili parleranno Hesse e Musil, che ricorderanno punizioni e percosse, mentre l’ultimo schiaffo dato dal padre morente condizionerà la vita di Zeno Cosini. Con l’industrializzazione cessa il passaggio di testimone fra padre e figlio: passaggio di autorità, ma anche di valori professionali. "Si sfalda la famiglia patriarcale - scrive Quilici - e ha inizio la rottura antropologica tra l’uomo e la cultura maschile preesistente". In sostanza, il paterno si svaluta nel momento in cui il padre esce dalla famiglia e lascia i figli alla madre. Parallelamente, però, inizia la lenta scoperta dei padri "materni".

Il primo libro in cui questo avviene è Pinocchio: nella storia di Collodi è il padre a "far nascere" il burattino, e Geppetto si dimostrerà sempre pieno di affetto e capacità di sacrificio nei confronti del figlio. Un fallimento della responsabilità virile, secondo alcuni. Un’anticipazione, secondo altri, di quel che verrà dopo. Dopo i padri devoti o violenti di Cuore, dopo il gelido genitore di Incompreso, dopo Freud, dopo quel topos del dissidio generazionale che fu La lettera al padre di Franz Kafka. E dopo quel "parricidio sommario" che, scrive Quilici, fu il 1968.

Finisce il padre, inizia il papà: iniziano la commozione, l’estroversione, la fisicità maschile che un tempo furono della madre. Nel 2007 la conquista dell’affido condiviso. Da oggi, il cammino per la costruzione di una nuova fisionomia. intervista

Zoja: "Sono caduti molti tabù"

di Loredana Lipperini (la Repubblica, 01.02.2010)

Anche nella storia della paternità, lo spartiacque potrebbe essere il 1968. Luigi Zoja, lo psicoanalista autore di uno dei libri più belli sulla figura paterna (Il gesto di Ettore, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2003), avverte che il processo è evidentemente più lungo: «Le tre parole simbolo della rivoluzione francese, Libertè, Egalitè, Fraternitè, anticipano di molto, sia pure solo fra le classi più colte, quel principio orizzontale della fraternità che ha finito con il prevalere su quello, verticale, della paternità. E che trova la sua legittimazione con i movimenti studenteschi americani e con la famosa copertina del 1967 con cui Time, dichiarando i giovani personaggi dell’anno, consegna il potere alle nuove generazioni».

Quando questo cambiamento tocca la figura del padre?

«La figura del padre indegno comincia apparire nell’Ottocento, sia nella letteratura romantica sia sulla stampa periodica: fino a quel momento il padre negativo e distruttivo era l’eccezione, il mostro. Il fatto che diventi un’apparizione regolare è un fatto senza precedenti».

Il padre di oggi che accudisce il figlio è ugualmente una figura nuova?

«In parte, è un riflesso del venir meno di alcuni tabù: quello dell’omosessualità, per esempio. La rigidità paterna è stata sempre legata anche alla paura di comportarsi in modo troppo femminile. Vedo favorevolmente il padre come ausiliario della madre: purché si vada comunque a riempire il vuoto lasciato dal principio psichico paterno».

Manca dunque, a suo parere, un principio di autorità?

«Manca il principio di autorità buona: che esiste anche se nei secoli è stato anche esercitato in modo tremendo. Ma non ci sono stati solo padri violenti, bensì padri che hanno usato l’autorità per intervenire, come è necessario per incanalare l’aggressività dei giovani maschi. Oggi quel principio è venuto meno: e la sua assenza si collega alla forte crescita della criminalità giovanile gratuita».

I padri di oggi si sottraggono al gesto di Ettore, quello di sollevare il figlio verso l’alto pregando che sia più forte di lui?

«I salti generazionali, oggi, sono tali che i padri non riescono a capire cosa significhi il successo per i propri figli. Molto spesso l’accudimento paterno è più diretto e emozionale. Quel che il freudismo ortodosso non ha abbastanza preso in considerazione è che il padre come autorità buona non è solo castratore e invidioso: ma prova gioia nel vedere il figlio che va avanti».

ESAME DI MATURITA’ 2010. Traccia 1. EDUCAZIONE, COSTITUZIONE, E "DISPOTISMO ALL’ITALIANA". Fondando il Partito "Forza Italia", il cittadino Silvio Berlusconi si è appropriato indebitamente della Parola: ITALIA. Si svolgano proprie riflessioni sul fatto, sotto forma di Lettera al Presidente della Repubblica, il cittadino Giorgio Napolitano

DOC. 1 - IL DISPOTISMO ALL’ITALIANA - DI NADIA URBINATI.

DOC. 2 - UN DIRITTO AD PERSONAM - DI FRANCO CORDERO

DOC. 3 - COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....

DOC. 4 -NON MI SENTO ITALIANO". BUFERA SUL CINEFORUM. APPELLO ALLA GELMINI: "TITOLO OFFENSIVO"

di Stefano Rodotà (la Repubblica, 22.01.2010)

È bene chiamare le cose con il loro nome: stiamo vivendo una crisi di regime. Dalla quale si esce con una rifondazione della Repubblica secondo una lettura dinamica dei principi della Costituzione o, al contrario, abbandonando quei principi, con una rottura che porta, appunto, a un mutamento di regime. Negli ultimi tempi, infatti, si sono moltiplicate le dichiarazioni di chi esplicitamente sostiene la necessità di mutare i fondamenti della Costituzione, a cominciare dal suo articolo 1. Non bisogna sottovalutare questi atteggiamenti, considerandoli esuberanze personali: si commetterebbe lo stesso errore fatto quando si è derubricato il linguaggio razzista di molti politici a folklore.

Ma vi sono anche prese di posizioni apparentemente più moderate, che prospettano aggiramenti dei principi costituzionali che possono rivelarsi ancor più insidiosi degli attacchi diretti. Molti continuano a dire che la prima parte della Costituzione non si tocca, che principi e diritti fondamentali non sono in discussione. Ma la Costituzione affida la garanzia dei diritti alla libera valutazione del Parlamento e al controllo di una magistratura indipendente. Nel momento in cui la voce del Parlamento viene spenta (lo abbiamo visto con il processo breve) e si prospettano radicali riforme costituzionali della magistratura, ecco che l’apparenza è quella di un rispetto della prima parte della Costituzione, la sostanza è quella di una sua erosione. La riforma costituzionale è già in atto, nel modo più inquietante.

Parlando di modifiche costituzionali, bisogna partire da alcuni punti fermi. Il primo dei quali riguarda il fatto che la Costituzione non è tutta "disponibile" per qualsiasi scorreria di interessati riformatori. Nel 1988 la Corte costituzionale lo ha detto esplicitamente: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali», perché «appartengono all’essenza dei valori sui quali si fonda la Costituzione». Siamo di fronte all’indecidibile, a un limite che non può essere superato «neanche dalla maggioranza e neanche dall’unanimità dei consociati». Una considerazione, questa, da tenere ben presente in un tempo in cui l’appello alla maggioranza viene continuamente adoperato per legittimare qualsiasi iniziativa. E si deve aggiungere che tutto questo trova il suo fondamento profondo nell’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol solo dire, banalmente, che non si ammette il ritorno ad un regime monarchico. Poiché la forma repubblicana del nostro Stato risulta dall’insieme dei principi contenuti nella Costituzione, tutto quel che altera questo quadro porta con sé una violazione radicale della Costituzione, e un conseguente passaggio da regime politico ad un altro.

Intraprendendo un cammino di riforma in un clima culturale e politico degradato com’è quello attuale, bisogna anzitutto individuare gli ambiti legittimi di una eventuale revisione. Gli studiosi sottolineano proprio questa necessità, ricordando ad esempio che la riforma del Parlamento non può trasformare la nostra Repubblica da parlamentare in presidenziale o negare l’effettiva rappresentatività della democrazia italiana (lo ha fatto Gianni Ferrara). Allo stesso modo, e più radicalmente, non si può mettere in discussione «il valore del lavoro come base della Repubblica democratica» (sono parole del Presidente della Repubblica), perché questa non è una affermazione a sé stante, ma individua un principio sul quale s’innesta una tutela forte della persona, per quanto riguarda la sua «esistenza libera e dignitosa» (articolo 36) e l’inviolabilità della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Queste sono parole dell’articolo 41, che in questi fondamentali principi individua un limite all’iniziativa economica privata, limite da tempo ritenuto inaccettabile da una critica che vuole sovvertire la gerarchia costituzionale, mettendo mercato e concorrenza al posto del lavoro. Ma proprio le drammatiche vicende di Rosarno dovrebbero dimostrare la straordinaria attualità della linea indicata da quell’articolo. Infatti siamo di fronte a una impressionante storia di sfruttamento e di negazione dell’umano, che conferma la necessità di mantenere, e eventualmente di rafforzare, il principio che fa prevalere sulle ragioni del mercato il rispetto della persona del lavoratore, della sua libertà, dignità, sicurezza.

Continue, poi, sono le prese di posizione che, alterando la gerarchia costituzionale, negano il fondamentale principio di eguaglianza. Di nuovo la questione degli immigrati è un buon terreno di verifica. Molti giudici hanno sollevato la questione di legittimità delle nuove norme sull’immigrazione clandestina. Reagendo a questa iniziativa, si è sostenuto che, qualora la Corte le dichiarasse incostituzionali, si avrebbe una sorte di estinzione della Repubblica italiana come Stato, poiché essa perderebbe una prerogativa fondante della statualità, cioè il diritto di regolare quel che avviene sul proprio territorio. Questo atteggiamento è rappresentativo della revisione "strisciante" della Costituzione. Ricordiamo, allora, che il Presidente della Repubblica, in una lettera a Maroni e Alfano nello stesso giorno in cui emanava la legge sulla sicurezza, esprimeva «perplessità e preoccupazione» per alcune norme di «dubbia coerenza con i principi dell’ordinamento», riferendosi specificamente anche alle norme sull’immigrazione clandestina. Le eccezioni di costituzionalità avanzate dai magistrati riguardano la ragionevolezza di quelle norme e il loro rispetto del principio di eguaglianza. La cittadinanza, infatti, è ormai vista come l’insieme dei diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, superando proprio le angustie del criterio della territorialità. Non si può ammettere quindi, che una repubblica democratica neghi il principio di eguaglianza e il rispetto dei diritti fondamentali in relazione al modo in cui si è entrati sul suo territorio.

Esplicite o striscianti, dunque, sono molte le mosse che incitano a revisioni costituzionali che incidono sui principi, fornendo così la testimonianza di un cambiamento di regime che si vuole imporre, o almeno secondare. Quanto, poi, al presunto invecchiamento d’una Costituzione votata sessant’anni fa, vorrei ricordare una recentissima sentenza del Conseil Constitutionnel francese, che ha dichiarato incostituzionale una legge per la sua scarsa comprensibilità (quante leggi italiane reggerebbero a un simile controllo?) richiamando gli articoli 4, 5, 6 e 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.

L’obbligo di una esplicita riflessione culturale e politica sugli intoccabili fondamenti costituzionali è oggi ancor più ineludibile perché siamo di fronte a quello che si può definire un vero "risveglio costituzionale". Molti cittadini cercano e realizzano forme di organizzazione e di azione partendo appunto dalla Costituzione. Questo riconoscimento ci parla di vitalità della Costituzione, quella che ha nel sentire dei cittadini il suo più solido fondamento. Qui può radicarsi una vera opposizione al mutamento di regime. Vogliamo tenerne conto?

PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. .... E DI SPIEGARE AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E AL CITTADINO SILVIO BERLUSCONI LE RAGIONI DELL’ "ODIO POLITICO" CHE "LO FA SOFFRIRE".

MATURITA’ 2008. TEMA D’ITALIANO. Traccia 1. FASCISMO. LA VIA ITALIANA AL TOTALITARISMO. Fondando il Partito "Forza Italia", il cittadino Silvio Berlusconi si è appropriato indebitamente della Parola: ITALIA. Si svolgano proprie riflessioni sul fatto, sotto forma di Lettera al Presidente della Repubblica, il cittadino Giorgio Napolitano

  Pag. 1/3 Sessione ordinaria 2009   Seconda prova scritta   BRP1 - ESAME DI STATO DI ISTRUZIONE SECONDARIA SUPERIORE   CORSO SPERIMENTALE - Progetto “BROCCA”   Indirizzo: SOCIO - PSICO - PEDAGOGICO   Tema di: PEDAGOGIA

  Il candidato è tenuto a svolgere, a sua scelta, due temi tra quelli proposti:

«La vera tolleranza non è indifferenza alle idee o scetticismo generalizzato. Presuppone una convinzione, una fede, una scelta etica e nello stesso tempo l’accettazione del fatto che siano espresse idee, convinzioni, scelte contrarie alle nostre. La tolleranza comporta una sofferenza nel sopportare l’espressione di idee, secondo noi, nefaste, nonché la volontà di assumere questa sofferenza. Vi sono quattro gradi di tolleranza: il primo, formulato da Voltaire, richiede di rispettare il diritto di proferire un discorso che ci sembra ignobile; ciò non significa rispettare l’ignobile, significa evitare di imporre la nostra concezione dell’ignobile per proibire un diritto di parola. Il secondo grado della tolleranza è inseparabile dall’opzione democratica: la caratteristica della democrazia è di nutrirsi di opinioni diverse e antagoniste; così, il principio democratico ingiunge a ciascuno di rispettare l’espressione delle idee antagoniste. Il terzo grado obbedisce alla concezione di Niels Bohr, secondo cui il contrario di un’idea profonda è un’altra idea profonda; in altri termini, vi è una verità nell’idea antagonista alla nostra, ed è questa verità che si deve rispettare. Il quarto grado consegue dalla coscienza del fatto che gli umani sono posseduti dai miti, dalle ideologie, dalle idee o dagli dei, così come consegue dalla coscienza delle derive che trascinano gli individui ben più lontano e altrove rispetto a dove volevano arrivare. La tolleranza vale evidentemente per le idee, non per gli insulti, le aggressioni, le azioni omicide.» E.MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, trad. ital. S. LAZZARI, Milano 2001

Il candidato esponga le sue riflessioni sul testo sopra riportato e si soffermi, in particolare, sulle seguenti questioni:   che cosa si intende per principio di tolleranza?   qual è il ruolo del principio di tolleranza nello svolgimento dell’attività educativa?   in che senso l’educazione è anche educazione alla tolleranza?   Pag. 2/3 Sessione ordinaria 2009   Seconda prova scritta   BRP1 - ESAME DI STATO DI ISTRUZIONE SECONDARIA SUPERIORE   CORSO SPERIMENTALE - Progetto “BROCCA”   Indirizzo: SOCIO - PSICO - PEDAGOGICO   Tema di: PEDAGOGIA

«Inoltre, le scelte di un bambino non dipendono tanto da una presa di posizione in favore del bene e contro il male, ma da chi suscita la sua simpatia e la sua antipatia. Più un personaggio buono è semplice e schietto, più è facile per un bambino identificarsi con lui e respingere quello cattivo. Il bambino si identifica con l’eroe buono non a motivo della sua bontà ma perché la condizione dell’eroe esercita un forte richiamo positivo su di lui. L’interrogativo che si pone per il bambino non è: “Voglio essere buono?” ma “Come chi voglio essere?”. Il bambino decide questo proiettando tutto se stesso in un singolo personaggio.» B. BETTELHEIM, Il mondo incantato, Milano 2008

Il candidato illustri il passo sopra riportato soffermandosi in modo particolare sull’educazione sentimentale del bambino, sull’acquisizione di comportamenti etico-morali e sui meccanismi di proiezione della personalità.

«Trovarsi a vivere in una società complessa e sovente disorientata, anche nella micro società scolastica, in cui ci si trova di fatto riuniti per ragioni varie, e impegnarsi a farne una vera comunità di vita e di lavoro, significa maturare la capacità di cercare e di dare un senso all’esistenza e alla convivenza e di elaborare dialetticamente i costrutti dell’identità personale e della solidarietà, della libertà e della responsabilità, della competizione e della cooperazione. In questa prospettiva, l’ordinamento giuridico, che trova nella Costituzione il suo nucleo generativo e il suo fondamentale impianto organizzativo, non va considerato come uno dei tanti schemi astratti e immutabili con cui la scuola obbliga gli studenti ad affaticare la memoria, ma come un germe vitale, che si sviluppa lentamente, e non senza ostacoli e resistenze di tipo interno ed esterno, nella vita dei ragazzi e in quella della classe e della scuola. Tale ordinamento si rivela progressivamente come potente strumento per capire, per accettare e per trasformare la realtà, per impostare relazioni, per affrontare e risolvere in modo non violento i conflitti a tutti i livelli e per immaginare e promuovere nuove regole, coerenti con quei principi e con le linee portanti dell’ordinamento democratico.» Documento d’indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, MIUR 2009

Il candidato rifletta sul tema proposto ponendo soprattutto l’attenzione sui seguenti punti:   convergenza fra istruzione ed educazione;   valore formativo dello studio della Costituzione;   esercizio della cittadinanza attiva.

  Pag. 3/3 Sessione ordinaria 2009   Seconda prova scritta   BRP1 - ESAME DI STATO DI ISTRUZIONE SECONDARIA SUPERIORE   CORSO SPERIMENTALE - Progetto “BROCCA”   Indirizzo: SOCIO - PSICO - PEDAGOGICO   Tema di: PEDAGOGIA

«I bambini e i ragazzi stranieri si trovano di fronte a compiti di sviluppo e ostacoli comuni ai loro coetanei autoctoni (apprendere, riuscire, superare prove e prestazioni, diventare autonomi e responsabili), ma devono affrontare anche sfide proprie e particolari: ridefinire il rapporto tra le memorie e le generazioni, costruirsi un’identità in situazione migratoria, ricercare una collocazione che non sia perennemente in bilico tra i due mondi. Apprendere nella migrazione comporta quindi la capacità di mobilitare risorse per far fronte alle sfide esterne, alle aspettative diverse che provengono da istituzioni educative differenti, al senso di provvisorietà e indefinita appartenenza che a volte si accompagna al viaggio nel nuovo Paese. Più che di situazione di disagio, per i bambini dell’immigrazione si può dunque parlare di vulnerabilità, cioè di una condizione di “fragilità” dovuta ai rischi di disequilibrio nelle relazioni principali. [...] In termini di relazione tra apprendente e insegnanti, nella grande maggioranza delle scuole, i docenti si assumono il ruolo positivo ed efficace di “facilitatori” di apprendimento e di iniziatori rispetto al nuovo viaggio, reale e simbolico.» G. FAVARO (a cura di), Alfabeti interculturali, Milano 2000

Il candidato esprima le sue riflessioni sul testo proposto soffermandosi in particolare sui seguenti punti:   l’educazione interculturale;   l’accoglienza degli alunni stranieri;   la funzione del mediatore linguistico-culturale.   Durata massima della prova: 6 ore.   È consentito soltanto l’uso del dizionario di italiano.   Non è consentito lasciare l’Istituto prima che siano trascorse 3 ore dalla dettatura del tema.

NOTE SULLA TRACCIA III: Il candidato (...) analizzi il tema generale del rapporto genitori figli nella società contemporanea (...) - CORRIERE DELLA SERA *

TRACCIA 3 - Il terzo tema corteggia problematiche giovanili e legate al mondo della globalizzazione, ma tocca anche gli aspetti psicopedagogici dei nuovi media. Lo studente dovrebbe evitare di finire in una trattazione banale e schematica, in cui si elencano i nuovi strumenti di comunicazione e le loro trappole. Il testo invita a riflettere sul gap generazionale, sempre più ampio, che il possesso di competenze informatiche dei giovanissimi crea nei confronti dei genitori e talvolta anche dei docenti.

All’interno della vasta problematica genitori/figli il candidato può richiamare autori contemporanei, quali ad esempio G. Pietropolli Charmet e V. Andreoli, che diffusamente hanno trattato della difficoltà di comunicazione tra generazioni sempre più diverse che si confrontano in un dialogo difficile a causa dei differenti codici di comunicazione e dei diversi valori di riferimento. In particolare l’adolescente, più del bambino e del giovani, rischia una chiusura comunicativa, scegliendo di interagire esclusivamente con il gruppo allargato (con internet) dei coetanei, tanto da divenire una nuova famiglia sociale, immagine che non corrisponde più a quella confezionata all’interno della sua famiglia d’origine. Ne sono un esempio i giovani giapponesi hikikomori, che si chiudono nella loro stanza, fallendo ogni tentativo di inserimento sociale e di debutto identitario interattivo.

Ciò nonostante le tecnologie multimediali, necessariamente presenti in ogni sistema formativo, non possono essere trascurate nei piani di studio delle scuole di ogni ordine e grado, perché, oltre a fornire competenze tecniche, rappresentano una stimolazione mentale anche per l’uso di più aspetti dell’intelligenza ( cfr. le intelligenze multiple di H. Gardner). Pensiamo al suo esempio di una ragazza che compone musica al computer utilizzando contemporaneamente l’intelligenza musicale, razionale e spaziale, oltre che alla capacità introspettiva. Infine occorre ricordare che internet in particolare consente l’accesso all’universo delle informazioni, ma resta sempre la necessità di una capacità critica che il soggetto deve acquisire a scuola e in famiglia.

   Il direttore generale della Luiss   avremmo voluto che l’Italia fosse diversa e abbiamo fallito

   "Figlio mio, lascia questo Paese"

  di PIER LUIGI CELLI *

Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.

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Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l’idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.

Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l’affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.

Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all’attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E’ anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l’Alitalia non si metta in testa di fare l’azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell’orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d’altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l’unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.

Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po’, non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all’infinito, annoiandoti e deprimendomi.

Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.

Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.

Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze.

  Con affetto,   tuo padre

L’autore è stato direttore generale della Rai. Attualmente è direttore generale della Libera Università internazionale degli studi sociali, Luiss Guido Carli.

Il fantasma necessario del “disfattismo”

di Adriano Prosperi (la Repubblica, 15.06.2009)

Disfattismo: la parola appare improvvisa in una lingua che l’aveva dimenticata. Nel «Lessico di frequenza della lingua italiana contemporanea» che nel 1971 il Cnuce di Pisa pubblicò sulla base di un campione di 500.000 parole d’uso tra il 1947 e il 1968 troviamo la parola «disfatta» ma non troviamo «disfattismo».

C’era voluta la disfatta della guerra per far tacere la voce di un regime che per vent’anni aveva sistematicamente fatto uso dell’accusa di disfattismo. E infatti basta varcare il confine del 1945 per trovare un uso sistematico di quell’accusa. Non sono più molti oggi gli italiani che l’hanno ascoltata nei raduni oceanici del regime fascista o gridata da una voce stentorea attraverso la radio. E solo l’ignoranza diffusa della nostra storia e la mancanza di una cultura politica degna di questo nome spiega perché manchi oggi una capacità collettiva del nostro paese di riconoscere l’apparizione di un termine chiave della nostra storia novecentesca . Il mondo è cambiato, la società italiana è oggi sideralmente lontana nei consumi e nello stile di vita da quella dei tempi del primo Cavaliere, i mezzi di comunicazione sono dotati di un’efficienza e di una capillarità allora inimmaginabili.

Ma quella parola che affiora nel linguaggio del presidente del Consiglio è come una macchina del tempo. Di più , è un marcatore genetico. Ci riporta agli anni venti del secolo scorso. Svela il binario obbligato su cui corre il treno dell’avventura politica oggi in atto. Contro il disfattismo dei socialisti e la debolezza dei liberali, responsabili di dividere il paese e di criticare chi aveva voluto l’ingresso in guerra, Benito Mussolini pronunziò un celebre discorso il 3 aprile 1921 nel teatro comunale di Bologna: l’attacco era fatto in nome di una «stirpe ariana e mediterranea» da parte di un capo che chiamava a raccolta contro il nemico interno. Il filo dell’attacco al disfattismo non si interruppe qui. Fu il leit motiv della propaganda del regime.

Se rievochiamo queste vecchie cose non è per tornare sulla questione generale se quello che si presentò anni fa come il «nuovo che avanza» sia in realtà qualcosa di molto vecchio, se il berlusconismo sia classificabile come fascismo. Quello che si presenta è una nuova declinazione di qualcosa che appartiene alle viscere profonde della storia italiana, alle magagne della nostra società, alle questioni non risolte nel rapporto tra gli italiani e il passato del paese.

E’ il linguaggio del leader a svelare che il regime che giorno dopo giorno avanza nel nostro paese tende a riproporre qualcosa che l’Italia ha già conosciuto. Il disfattismo fu per il regime fascista un fantasma necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà e gli insuccessi. La voce del Capo si alzava non tanto per denunziare le trame dei disfattisti di professione, quel pugno di antifascisti «soli, solissimi», come ha scritto Vittorio Foa. Per loro, per seguirne i passi, in Italia e all’estero, per eliminarli all’occorrenza, bastavano l’Ovra e i sicari. No: il disfattismo era per il regime il nemico per definizione, l’unico nemico che potesse minacciare un sistema in cui il Capo doveva realizzare l’ideale supremo della democrazia organica, della fusione mistica del popolo nel leader. E tanto più insistente fu la campagna contro il disfattismo quanto più in profondità penetrava l’adesione collettiva al regime, quanto più generalizzato fu il consenso.

Consenso: questa è la parola che figura nel titolo di un volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice. Da lì data la sconfessione di una falsa immagine della nostra storia. La favola bella che fu raccontata dopo la Liberazione all’Italia che si scopriva insieme sconfitta e vittoriosa fu quella di un antifascismo originario e diffuso che era sfociato naturalmente nella Resistenza.

Oggi sappiamo che non era vero. Sappiamo che gli italiani erano stati profondamente corrotti dal regime fascista. La corruzione era consistita proprio nella continua denunzia del disfattismo, nella costruzione passo dopo passo di un sistema di unità organica tra popolo e capo che permettesse al capo di riassumere ed esprimere i bisogni del popolo, di rispondere a ciò che la gente voleva, al di là di ogni mediazione.

In fondo, possiamo parlare del fascismo come di una forma speciale di democrazia: una democrazia che eliminava le mediazioni faticose dei sistemi rappresentativi nel momento stesso in cui cancellava le barriere che impedivano al potere del Capo di operare. Era per eliminare il disfattismo che bisognava sostituire la voce del regime alle discordanti voci della libera stampa e trasformare le istituzioni di una monarchia parlamentare in canali di unione organicistica tra il Capo e il suo popolo.

E quando, con i Patti Lateranensi, anche la Chiesa dette il suo fondamentale contributo al pieno dispiegarsi di una saldatura completa tra il paese e «l’uomo della Provvidenza» la lotta al disfattismo fu coronata da due provvedimenti emblematici: il giuramento di fedeltà dei professori e la riapertura del tesseramento perché tutti potessero entrare in un partito che non era più una parte ma il tutto. Fu allora che almeno un italiano parlò di un processo di corruzione che stava minacciando tutti: un processo che poteva e doveva essere contrastato. Leone Ginzburg sostenne che non si dovevano condannare gli italiani che per ragioni di necessità avevano chiesto quella tessera, ma bisognava incoraggiarli a non fare altri passi sul terreno della corruzione.

Oggi il discorso sulla corruzione degli italiani è di tipo diverso ma non meno grave. La saldatura tra popolo e leader si nutre del progressivo svuotamento dell’etica civile, fatto di leggi e di decreti di breve e brevissimo respiro, di una continua aggressione alle istituzioni rappresentative, alla divisione dei poteri dello Stato, alle istituzioni giudiziarie e alla legalità. Alla violenza fascista si è sostituita la persuasione di un abile management delle emozioni collettive e una sostituzione dell’evasione e del sogno alla durezza dell’irrreggimentazione.

Ma l’esito è identico: si chiama corruzione e affonda le radici in un vuoto di memoria e di cultura civile. Se il consenso massiccio della popolazione al regime di Mussolini è una verità storica acquisita, questa verità non ha operato nel senso giusto, non ha spinto le istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani a fare i conti con la nostra storia con la radicalità e la durezza con cui i tedeschi hanno fatto i conti col nazismo. Solo tenendo conto di questo si può risolvere l’enigma di un consenso collettivo appena incrinato da episodi che altrove avrebbero costretto ogni statista decente a dimettersi. Un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla.

Scuole senza fondi, genitori contro la Gelmini

Una torre di carta igenica e una scatola di cartone con un messaggio ai genitori: «Meno di 50 euro non porta bene». Eh sì, la scuola pubblica batte cassa perchè il ministero l’ha messa in mutande: i presidi non hanno i soldi per pagare i rotoli per il gabinetto, figuriamoci per le supplenze, il toner, le fotocopie e quant’altro. Così ecco il concerto-sgomento di mamme e papà arrabbiatissimi contro i tagli all’istruzione e il crack finanziario. A «suonarle» di santa ragione alla Gelmini è stata l’orchestra della media «Giuseppe Gioacchino Belli» di Viale Mazzini, a due passi dalla Rai di Roma, accompagnati da due genitori doc: il musicista jazz Roberto Gatto e la cantante Rosanna Casale. A dirigerli, il prof di violino Marco Quaranta.

La sortita della Gelmini ai presidi ribelli: «Chi non sa dirigere, cambi mestiere» non è piaciuta affatto ai genitori che solo grazie alla lettera-denuncia portata a casa dai loro figli hanno preso coscienza dello stato delle cose. Anna, madre di una bambina che frequenta la prima media, lo grida al microfono: «Il prossimo anno i nostri figli non avranno l’antologia di italiano perché il tetto per i libri di testo è stato superato, alcune materie perderanno delle ore di lezione. Io mi vergogno! La nostra scuola non ha più niente... La sinistra qualcosa deve fare in questo mondo. Prima delle elezioni mobilitiamoci». Un invito che il papà di Beatrice Gatto e la mamma di Sebastiano Casale hanno raccolto al volo, mettendo in scena a scuola lo sgomento anti-Gelmini. Con replica l’11 giugno sotto la Rai.

La preside Carla Costetti è seduta in prima fila in aula magna, al suo fianco l’assessore Luigi Nieri della Regione Lazio e il consigliere Battaglia della Provincia. «Questa è una azione per rendere più forte la scuola pubblica - spiega la dirigente scolastica alla platea. Vogliamo almeno il minimo di presupposto per continuare a lavorare». E invece i bilanci delle scuole sono e restano sul rosso fisso. Rosanna Casale e Roberto Gatto hanno un’idea: «Faremo un tam tam tra musicisti e cantanti affinchè in ogni scuola pubblica, nella stessa ora, si suoni lo sgomento. Un concerto completo con biglietti a pagamento a partire da settembre». Riccardo Avitale, genitore, ascolta e aggiunge: «Abbiano almeno il coraggio di dirlo i signori del governo e di viale Trastevere che il funzionamento delle scuole statali è a carico delle famiglie. Se è così ci detassino le spese come per l’8 per mille».

  LA COSTITUZIONE, L’ ALTO TRADIMENTO STRUTTURALE DELLA FIDUCIA E il "DISEGNO PERVERSO E AUTORITARIO" (E. Scalfari) di "Forza Italia"   DISTRUGGERE LA SCUOLA PUBBLICA!!! SOLUZIONE FINALE: TAGLIARE TUTTO!!!   MINISTERO ISTRUZIONE "FORZA ITALIA" E BANKITALIA PUBBLICANO "LE FOTO" DELLE LORO RICERCHE E DELLE LORO RAGIONI!!!

Silvio da Casoria, l’educatore

I misteri mai voluti chiarire sul rapporto con una neodiciottenne, gli attacchi ai giudici e la semplice domanda del leader Pd

di Furio Colombo (l’Unità, 31.05.2009)

Basta elencare alcuni fatti - nessuno enorme, tutti esemplari - accaduti lo stesso giorno, rivederli sui giornali e le notizie tv del giorno dopo, per capire la strana, misteriosa avventura che stiamo vivendo.

Primo fatto: il Presidente del Consiglio va alla Assemblea della Confesercenti e dichiara: «Se vuoi fare il male o fai il delinquente, o fai il giornalista o fai il magistrato». Solo i magistrati hanno protestato.

Secondo fatto: «In un carruggio di Genova un giovane anarchico, tale Juan Antonio Sorrache Fernandez ha urlato contro il ministro La Russa una raffica di insulti prima di essere bloccato dagli uomini della scorta» (La Repubblica, 29 maggio). Episodio sgradevole su cui il generoso ministro della Difesa ha sorriso. Ma non il suo guardaspalle, il corpulento senatore della Repubblica Giorgio Bornacin. Ha atteso che il giovane scalmanato spagnolo fosse tenuto ben fermo dalla scorta e solo in quel momento gli ha sferrato un pugno al volto. Il TG3, Linea Notte, 28 maggio, ha mostrato con chiarezza il gesto di coraggio del senatore extra-large di cui il ministro La Russa dispone.

Terzo fatto: «Einaudi non pubblica Il Quaderno il nuovo libro del premio Nobel José Saramago. «L‘opera contiene giudizi a dir poco trancianti su Silvio Berlusconi che di Einaudi è il proprietario» (Il Corriere della Sera 29 maggio). Qui c’è anche anche una nitida ridefinizione dell’editore. Non conta il Nobel. Conta il proprietario. Altrimenti come avrebbero potuto pubblicare, in America, la copiosa produzione di libri contro Kennedy, contro Clinton, contro Carter, contro Reagan, contro Bush, padre e figlio? Quarto fatto: il segretario del Partito democratico Dario Franceschini rivolge ai suoi ascoltatori, durante un incontro elettorale a Genova, questa domanda: «Fareste educare i vostri figli da Berlusconi?». È utile dire che domanda di Franceschini segue di pochi giorni l’improvvisa apparizione di Berlusconi alla festa di una diciottenne bella e sconosciuta (al resto degli italiani) circondata da decine di amiche e coetanee. Segue un regalo alla giovane debuttante, acquistato per migliaia di euro da orafo di reputazione internazionale; segue una serie innumerevole di affermazioni solenni e di solenni smentite; segue la perplessità di tutta Europa, stampa e politica, sul legame, la origine del legame, il rapporto tuttora immerso nel mistero fra Berlusconi e famiglia Letizia, in particolare con il padre della fortunata diciottenne. Però è un fatto che la festa ha avuto luogo a un tiro di schioppo dall’inceneritore di Acerra, festosamente inaugurato, con presidio di Forze armate, poche settimane prima dal premier.

Per allargare il quadro a beneficio dei posteri è bene ricordare che la domanda di Franceschini segue di pochi giorni una motivata sentenza del Tribunale di Milano (primo grado) che definisce più volte Berlusconi Silvio, padre e padrone di mezza Italia, «corruttore». Segue di pochi giorni una accorata lettera della consorte divorzianda Veronica Lario. Dice «frequenta minorenni» Supplica: «Aiutatelo come si aiuta qualcuno che non sta bene». Berlusconi Silvio, l’educatore. A questo punto, dite la verità: è difficile che un italiano, per quanto di destra, decida di far educare i suoi figli da uno che, di notte, deve improvvisamente recarsi a Casoria.

Da uno che risponde alla sgradevole sentenza di Milano con attacchi violenti alla magistratura. Da uno che non tollera neppure la mite stampa italiana e la mette in lista fra i delinquenti; da uno che non risponde a dieci semplici elementari domande di Repubblica se non con il giuramento di non aver fatto nulla di «piccante» (notare il gergo da vecchio cabaret); da uno che la stampa del mondo definisce «un pericolo» e «una minaccia»; da uno di cui l’opinione americana diffida a causa degli intimi legami di affari con la Libia e con Putin, due ambienti dove gli oppositori e i giornalisti fastidiosi si eliminano.

Ma il leader giura sulla testa dei figli (un bel pericolo!). E i figli, rispondono sia al legame di affetto sia a quello, innegabilmente forte, di azienda. Di fronte al padre-azienda, l’Italia - ci dicono - si commuove. Che cosa accade allora? Accade che la sottosegretaria Roccella offra i suoi figli al presidente di Casoria (senza rivelare, però, che sono già grandini). E il resto dell’opinione pubblica, tutta la destra, tutta la stampa, un bel po’ di sinistra e Pd, accusano Franceschini di delitto contro la famiglia (Berlusconi).

Ma lui, tutto solo e accusato da ogni singolo editoriale di ogni singola libera testata, intendeva mettere in guardia la famiglia Italia. Perciò ripetete con lui la frase che vale la pena di fare bandiera elettorale: «Fareste educare i vostri figli da Silvio Berlusconi?».